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Testimoni perseguitati. ASIA BIBI, il romanzo dell'ingiusta prigionia

LORENZO FAZZINI mercoledì 5 ottobre 2016
Asia Bibi è diventata – suo malgrado – uno dei simboli della (mancata) libertà religiosa del mondo.  Ora in Francia un romanzo (autrice una scrittrice di grido), racconta e immagina la vita di questa giovane donna, da 2.662 giorni imprigionata in Pakistan con l’accusa di blasfemia contro l’islam, già condannata a morte in nome di una legge liberticida. Le roman d’Asia Bibi (Editions du Cerf, pp. 1136, euro 15) è l’opera di fantasia basata sulla cronaca, ma anche di indagine psicologica e narrativa, pubblicata di recente da Vénus Khoury-Ghata, poetessa e scrittrice di origine libanese. Una personalità di riguardo nel panorama della cultura transalpina (dagli anni Settanta ha passaporto francese): Khoury-Ghata ha vinto il prestigioso Premio Goncourt di poesia, il Grand prix dell’Académie française per l’insieme della sua opera poetica, il Prix Renaudot per un suo romanzo. Ora si è cimentata nel raccontare la vicenda di Asia Bibi, la madre di cinque figli (di cui uno disabile), cattolica, arrestata il 19 giugno 2009 nel suo villaggio di Ittanwali, nella regione del Punjab. L’accusa, aver offeso il profeta Maometto e l’aver bevuto a una fontana del villaggio riservata alle donne musulmane. Già incriminata da un tribunale locale nel luglio del 2009, l’11 novembre dell’anno seguente venne ufficialmente condannata a morte in base alla legge sulla blasfemia, introdotta in Pakistan nel 1986 dall’allora presidente Muhammad Zia-ul-Haq. Una norma molto contestata sia in patria che all’estero, non solo da parte cristiana: diverse organizzazioni non governative e enti per i diritti umani ne hanno chiesto più volte l’abolizione, visto che è ormai diventata un’arma nelle mani dei violenti e dei fondamentalisti islamici.  Attualmente Asia Bibi è detenuta nel penitenziario di Multan, nel Punjab, in attesa del responso definitivo della Corte suprema del Pakistan che, la prossima settimana, deciderà in modo definitivo sulla sua sorte. In realtà, come racconta Khoury-Ghata, Asia Bibi è stata vittima del montante islamismo violento e integralista che sta attanagliando da alcuni anni il Pakistan. E nel romanzo la stessa protagonista si domanda «perché l’islam è diventato così intollerante, perché l’islam non è più l’islam». La stessa Asia Bibi – nella penna di chi ne ricostruisce la vicenda – è lontana mille miglia dall’esser passabile di islamofobia: l’autrice la descrive come domestica impegnata in una famiglia islamica a Lahore, dove badava alle faccende di casa e si prendeva cura dei bambini: «Erano persone tolleranti che non disdegnavano di bere dal bicchiere che lei passava loro, che mangiavano nei piatti che lei lavava e che la lasciavano libera la domenica perché potesse partecipare alla messa».  La visione islamista estremista che ha portato Asia Bibi in prigione, del resto, ha causato due vittime illustri: il governatore (islamico) del Punjab, Salman Taseer, e Shabbaz Bhatti, il ministro (cattolico) per le minoranze, colui il quale – grazie al suo impegno di attivista per i diritti umani e i numerosi legami con l’estero – seppe accendere i fari dell’attenzione pubblica internazionale sulla giovane analfabeta di uno sperduto villaggio del Pakistan.  Nel romanzo è il marito di Asia, Ashik, a parlare per primo del politico musulmano, quando informa Asia Bibi del suo intervento: «Lui ci aiuta. Ci ha detto che non si può condannare a morte qualcuno perché ha sete», facendo riferimento al fatto 'incriminato', Asia Bibi che beve ad una fontana 'riservata' alle donne islamiche. E proprio per il suo appoggio ad Asia il 4 gennaio 2011 Salman Taseer venne ucciso dagli integralisti. Khoury-Ghata ricostruisce anche il rapporto tra Asia e Bhatti. Fortissimo quel passaggio in cui il ministro cattolico incontra la donna reclusa: «“Tu vivrai” gli aveva assicurato il ministro delle minoranze, tre giorni prima di venir ucciso. Dubitare della parola di un martire è un sacrilegio». Bhatti infatti venne assassinato il 2 marzo dello stesso anno. E sebbene le vicende di Asia Bibi siano conosciute – specialmente dai lettori di questo giornale, che al dramma di tale donna ha dedicato molto spazio –, il merito di Khoury-Ghata è proprio quello di creare – grazie all’immaginazione propria di chi per mestiere immagina e racconta il verosimile – lo spazio narrativo per indagare la ricaduta psicologica ed interiore di come Asia Bibi stia vivendo il proprio dramma. Sono numerosi gli esempi di tale indagine spirituale, laddove, ad esempio la voce narrante afferma: «Asia darebbe quel che le resta da vivere per non essere più Asia». Oppure il senso di avversione  verso di lei che non riguarda solo gli integralisti musulmani: «Gli islamisti la accusano di blasfemia verso il Profeta, i musulmani moderati di essere la causa dell’assassinio del governatore del Punjab e i cristiani dell’omicidio del ministro delle minoranze. C’è ancora un individuo che non se ne augura la morte?» si chiede Khoury-Ghata.  Un altro colpo di genio narrativo della narratrice si riscontra laddove si immagina che Asia Bibi ceda all’idea di farla finita mettendo fine ai suoi giorni con un drappo intorno al collo: «È sul punto di farlo quando un rumore di campane arriva alle sue orecchie. Le campane di una chiesa suonano a distesa. Il suono si intensifica ma non è la chiesa di quel quartiere di Multan, e neppure in un’altra parte della città. Ma è un suono che esiste?». Dolcissima è infine, e realistica, la tenerezza con cui una madre segue l’evolversi della crescita dei suoi 5 figli, che da oltre 7 anni sono senza la loro madre: Sidra, Nasseem, Imran, Isham e Isha, ragazzo disabile.  Drammatiche le raccomandazioni che Asia Bibi (si immagina l’autrice, o è realtà?) offre al marito per quando lei non sarà più: «Cambiare il cognome perché i figli non siano più riconosciuti e non subiscano la vergogna di essere nati da una mamma morte in prigione; cambiare città e andare il più lontano possibile da dove sono vissuti». Un’evenienza che speriamo non si debba mai registrare come dato di cronaca.