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Arte, natura e cemento Il miracolo brasiliano

di José Tolentino Mendonça giovedì 7 aprile 2016
Inhotim può sembrare, visto da fuori, un’assurdità brasiliana. Il più importante centro di arte contemporanea del Paese non ha scelto di essere ospitato a São Paulo o a Rio de Janeiro, ma è andato a nascondersi nell’interno dello Stato di Minas Gerais, a sessanta tortuosi chilometri dalla capitale Belo Horizonte. L’autostrada ci lascia ai piedi della Serra da Moeda, che bisogna poi attraversare lungo una strada di curve e brume, tra fazendas e villaggi dispersi sulla vastità del paesaggio, come avanzassimo sulla strada che non porta da nessuna parte. Ma, dobbiamo riconoscerlo, il viaggiatore viene largamente ricompensato dalla visione monumentale che improvvisati belvedere gli offrono. Il paesaggio è disegnato, fin dove gli occhi possano arrivare, da una fine e paziente matita che lascia la capricciosa vegetazione libera di fare il resto. Solamente all’entrata di Brumadinho udiamo, ormai già disabituati, un rumore che ci restituisce al presente: il passo metallico di vagoni, il coreografico sciame di mezzi di trasporto merci di qua e di là dalla linea scura e rossastra delle miniere, la spontaneità dei pedoni che si riversa sulla strada. Ma essere arrivati a Brumadinho è aver raggiunto l’anticamera di Inhotim. Nei primi anni Ottanta, l’industriale minerario Bernardo Paz acquistò in questa zona un pezzo di terra, che attrezzò come suo rifugio per i fine settimana. Nello stesso periodo viene a conoscere l’architetto paesaggista Roberto Burle Marx, che lo aiuta a innamorarsi delle eccezionali potenzialità del luogo. E un altro amico, l’influente scultore Tunga, lo convince a collezionare arte contemporanea (all’epoca, al centro degli interessi di Paz stava il modernismo brasiliano). A Inhotim la rivoluzione comincia con la costruzione dei primi cinque padiglioni, con un programma ancora un po’ timido. Solo a due di essi era assegnata una vocazione monografica, dedicati ad accogliere, l’uno opere di Cildo Meireles e l’altro dello stesso Tunga; i restanti fabbricati dovevano servire per mostre temporanee del patrimonio artistico acquisito. Il punto di svolta, che avrebbe gettato una nuova luce sull’insieme del progetto, fu l’edificazione del padiglione dedicato all’artista Adriana Varejão. L’architetto prescelto era un discepolo di Paulo Mendes da Rocha, Rodrigo Cerviño Lopez, nemmeno trent’anni di età, il primo di una singolare dinastia di giovani architetti che avrebbe esordito in quello spazio. L’idea di Cerviño Lopez fu di erigere un cassone di cemento su uno specchio d’acqua, come se levitasse. Non esibizionismo tecnico ma un gioco (tra realtà e sospensione, fra ritrazione ed espansione) che coinvolge l’edificio, l’opera che in esso è custodita, l’intero luogo e il visitatore. Rampe interne indirizzano il circuito dal piano terra al terrazzogiardino, che a sua volta è – ma lo scopriremo soltanto dopo – un passaggio che ci restituisce al parco. Diviene allora chiaro quel che è più importante: a Inhotim, tutto è percorso. L’opera d’arte è immersa nella natura e l’una e l’altra amplificano così la loro espressività. Via via che facciamo esperienza di questo luogo, non sappiamo più se i lunghi tratti di sentiero nella foresta ci preparano a contemplare le opere d’arte o se è l’incontro con queste che, in definitiva, ci inizia a un autentico contatto con la natura. Sono poi stati innalzati nuovi padiglioni, con aree incredibili, questa volta pensati per accogliere un unico autore o una sola opera (Doris Salcedo, Miguel Rio Branco, Lygia Pape, Matthew Barney, eccetera). E si sono moltiplicati i boschetti, i viottoli silenziosi, l’incredibile diversità vegetale che fa pensare a un’immersione monastica più che a un tradizionale ambiente museologico. Per questo c’è chi dice che Inhotim non solo inaugura un paradigma museale altro per il secolo XXI, ma propone un modo nuovo di abitare la contemporaneità. È indubbiamente uno dei luoghi più straordinari che il Brasile racchiuda. © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiamate in attesa