Agorà

Arte e sacro. Non basta un sanpietrino a fare un altare

Raul Gabriel domenica 3 luglio 2022

Blocchetti per il selciato a Sète, in Occitania

Si è fatta sera e dalle spiagge ampie e selvatiche di Marseillan accerchiate da una flora inospitale per gli esseri umani e paradiso per i volatili, decidiamo di spostarci a Sète. Passeggiamo ai lati del porto quando vengo rapito nella mia personale Damasco occitana: ai lati dei marciapiedi interi pallet di altari, come se tutte le chiese del mondo avessero deciso di confluire in questo piccolo centro della Linguadoca. Per un attimo rimango invischiato nel fermo immagine. Una infinità di cubetti asimmetrici in pietra bianca dalla misura variabile, sbeccati qua e là dal caso. Altari perfetti, secondo le pratiche comuni negli ultimi anni. Mi riprendo quasi subito e mi è chiaro che la similitudine ha scombinato il senso delle proporzioni. Non sono altari, sono blocchetti per il rifacimento urbano del lungo porto. La Damasco evapora e lascia superstite un pensiero. Nel momento in cui sboccia la corporeità accoglie il singolare, altrimenti destinato a vagare orfano nei regni dell’indistinto.

L’evento che scommette sulla capacità di regalare a questa evidenza la possibilità di un destino, più di ogni altra fede o riflessione filosofica, è il cristianesimo. Corpo e identità uno nell’altro, adamo ed eva nella genesi che ribolle della sua stessa natura gioiosamente inaffidabile, pronta a sfidare qualunque convenzione che ne rinneghi la vitalità, due elementi instabili nel liquido amniotico confuso e vivace dell’esistenza. La notizia non perde di attualità: ognuno, con la peculiarità che gli è propria, trova accoglienza e promessa in un disegno dove tutti gli opposti si completano perfettamente dentro l’unicum individuale e collettivo del corpo.

Non è questione da poco. Le conseguenze sono innumerevoli anche nell’ambito, considerato a torto molto specifico, che riguarda la ideazione artistica dei simboli liturgici e della casa che ne ospita il fatto. Il fatto è lo stigma del paria, il paria della convenzione, colui che non si può toccare, il ripudio dell’identità su cui le società di ogni tipo, religiose e laiche, tendono a fare sistema. Più il sistema si rafforza, più il fatto si ritira. Il fatto non è la solerte applicazione del corretto. La rivelazione è scorretta per natura, non ha mai formato bravi studenti all’accademia dello spirito, posto che esista qualcosa del genere. Il corpo non può negare il corpo e di conseguenza l’unicità, innesto squisito che se ne appropria per restituire all’esistenza ciascuno di noi, unico e irripetibile. I simboli liturgici sono corpo o non sono affatto, presenze dalla specificità puntigliosa, raffinata e soprattutto amata, intersezione del fatto con un volto riconoscibile.

È sempre più diffusa la tendenza ad avvalersi di geometrie sommarie, le “primitive” come vengono definite in ambiente 3D, soluzioni troppo facili per incarnare qualunque singolarità. Oltre alla questione formale vi è quella materica. Sono il primo a sostenere che la materia e il suo trattamento siano elementi costitutivi del corpo e del simbolo, ma non sono sufficienti. Siamo “fango”, si usa dire, ma a questo fango qualcuno si è dato la pena di attribuire volto, parola, iride, impronte digitali, e una infinità di tratti, tutti specifici, tutti sofferti, tutti inimitabili, tutti segno inequivocabile della nostra esistenza irripetibile, un dono a perdere in totale gratuità, da qualunque origine provenga.

D’altro canto la vaghezza della forma crea meno problemi, accontenta una idea di contemporaneità con il retropensiero di neutralità formale che non crea fastidi a nessuno. Salvo poi prodursi in fiumi di parole che di fatto non significano nulla. Nel leggere molti dei testi a latere di intenti e opere in questo contesto sembra di sfogliare una compilation economica dei discorsi che i politici fanno scrivere ai loro ghost writer, raccolte di proposizioni il cui intento è evocare valori generici dentro cui ognuno può mettere ciò che vuole, in forma più o meno colta e la cui sostanza è nulla. L’opposto della proposta cristiana: tu sei la chiave, tu come sei, tu, non altri. Ogni singola linea, ogni singola scelta è un organo del corpo che parla di ciò che segue e ciò che precede, di ciò che ospita e ciò che incarna.

Ogni volta che si realizza un simbolo la cui collocazione potrebbe essere più o meno ovunque, si tradisce il senso stesso del cristianesimo. Una operazione ideologica, nel migliore dei casi, quando non contrabbanda la mediocrità per una acquiescenza a committenti cui il fatto sembra essere sconosciuto, almeno nelle sue conseguenze. Molti credono di risolvere i temi di unità e armonia con l’applicazione dei pattern più o meno presenti nell’edificio. Noi, tutti noi, abbiamo un volto che non è pattern e non è modulo, è tesoro di identità, unico ed irripetibile. Il volto dell’azione che ogni simbolo dovrebbe incarnare non ha minore dignità, e non si può accontentare di niente di meno. La liturgia non è né pattern né modulo. L’evento cristiano, la sua stessa capacità di generare speranza non è un pattern o un modulo.

Di recente ho visto una di queste “soluzioni” generiche applicata in un luogo destinato a rappresentare proprio la cristianità nel contesto del dialogo interreligioso. Un parallelepipedo con qualche escoriazione di maniera, un cubo allungato, naturalmente bianco, sembrava uno di quei blocchetti per i marciapiedi di Sète steroidizzato. Certamente non disturba e non è identificabile. Identificabile non significa didascalico, altro errore di fondo. La didascalia tradisce anch’essa la corporeità dell’evento che deve “spiegarsi” nella sua forma, non attraverso le descrizioni, chiosa moralistica di un vuoto sostanziale.

Il fatto è che io e chiunque, anche un pesce o una pianta, non siamo né cubi né parallelepipedi. Il nostro bianco, rappresentazione che trovo irritante di una purezza ipotetica e inconciliabile con la vita, è sempre molto sporco e a questo dobbiamo la vita. Abbiamo forma, volto e corpo unici. Un simbolo liturgico è lo stesso, perché incarna una esistenza. Non bastano venature artefatte, inserti più o meno dorati e luccicanti ad operare la metamorfosi. Un arredo rimane arredo, quella è la sua natura, testimone dell’assenza.

Nell’avvicinarsi al simbolo non può mancare la stessa passione che ci ha concesso un corpo la cui complessità è tributo sorprendente al prodigio dell’esistenza. Quella passione non si inventa, e non è per tutti. Il simbolo è un corpo a corpo vero e proprio, come il cristianesimo, come ogni fede che fonda le sue radici dentro l’uomo, non un esercizio di sofismi di quarta categoria. Il corpo di chi pensa con il corpo, a cui deve dare presenza sensibile, il corpo di chi incontra una presenza e ci si relaziona come un corpo, il corpo del simbolo nel simbolo. Il corpo della vita, la propria, che non si addomestica come vorremmo perché ribelle, tormento del fariseo, corpo irrisolto e vibrante pronto a rilanciare continuamente la sua scommessa, profondamente, eversivamente cristiana. Profondamente, eversivamente singolare.