Agorà

Le mostre. Sessantotto: quando gli artisti fecero la rivoluzione

Lorenzo Canova e Alessandro Beltrami venerdì 17 novembre 2017

Mario Schifano, "Festa cinese", 1968 (particolare)

Roma. Così l'arte ruppe i suoi confini

Lorenzo Canova

La Galleria Nazionale d’Arte Moderna apre le manifestazioni dedicate al 68 attraverso una mostra di valore simbolico anche per la sua collocazione del museo in quella Valle Giulia che fu teatro della “battaglia” del 1 marzo 1968: evento che, notoriamente, aprì con durezza gli scontri di piazza e che rappresenta simbolicamente l’esplosione della contestazione studentesca in Italia.

La mostra (a cura di Ester Coen e accompagnata da un giornale-catalogo Electa) sceglie, in modo efficace e quasi provocatorio, una strada “fredda”, legata in modo quasi esclusivo alle opere d’arte ed esclude volutamente l’immenso apparato iconografico di immagini, slogan e dichiarazioni sviluppato intorno al movimento del 68. L’esposizione, il cui titolo “È solo un inizio” è ispirato proprio a un celebre slogan del maggio parigino e usato poi da tutto il movimento, presenta pertanto in modo rigoroso alcuni dei capolavori intorno al 1968 e realizzati dai alcuni dei maggiori artisti delle neoavanguardie italiane e internazionali che hanno avuto un legame più o meno attivo con le istanze di protesta e di rivolta di quel periodo.

Il progetto, che raccoglie anche un gruppo di lavori della collezione del museo, è legato principalmente alle ricerche extrapittoriche e all’idea di rottura dei limiti del quadro, allo sconfinamento dell’arte nella vita già preconizzato dal Futurismo e dalle avanguardie storiche, peraltro matrici riconosciute di molti aspetti legati ai movimenti studenteschi.

In questo senso la mostra raccoglie una selezione di opere magistrale, che mette in luce il 1968 come anno cruciale per lo sviluppo di tendenze che hanno poi portato al grande successo planetario, museale e di mercato, dell’Arte Povera, nata già nel 1967. La stessa Arte Povera era stata peraltro preconizzata in una mostra già nel 1967: “Fuoco Immagine Acqua Terra” nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini a Roma, dove erano esposti molti artisti oggi inseriti nell’attuale mostra e dove l’insieme delle opere portava sia alle poetiche “tattili” della materia sia alla dimensione immateriale della proiezione.

Da quel contesto si è sviluppata dunque l’idea di un’opera d’arte non più chiusa, ma trasformata nella dimensione ambientale dell’environment, spazio nuovo di apertura allo spettatore e allo spazio reale dell’esistenza dove l’arte si fa azione e si trasforma in uno strumento politico di protesta e di scontro.

Così, su questa linea, la mostra evidenzia anche come la stessa pittura si sia espansa assumendo una nuova e diversa valenza ambientale, come accade con il grande quadro Festa Cinese (1968) di Mario Schifano, dove l’utopia rivoluzionaria e idealizzata di una Cina vista da Occidente deborda nel trionfo delle bandiere rosse che invadono l’intero campo visivo allagandosi a tutto lo spazio che circonda il dipinto.

In questo modo l’opera d’arte muta e rivoluziona il suo codice genetico e si fa processo, territorio in divenire di dialogo tra il gesto dell’artista e la società, spazio dialettico dove l’oggetto artistico perde le sue coordinate per lanciarsi in un viaggio ancora in corso. Se era soltanto l’inizio questa mostra può essere allora un’occasione per riflettere su questi cinquant’anni di storia delle arti visive, tra utopia del cambiamento e stabilizzarsi di queste ricerche in un modello di riferimento per gli artisti delle generazioni successive.

Roma, Galleria nazionale d’arte moderna

È SOLO UN INIZIO. 1968

Fino al 14 gennaio

Milano. Molotov e propaganda per l'assalto al potere

Alessandro Beltrami

Bandiere rosse fiammeggianti, baci incestuosi tra America imperialista e croci uncinate, guerriglia e molotov, Lenin e Mao. È cupa l’immagine del Sessantotto – inteso come clima di un decennio – che esce da “Arte ribelle”, la mostra curata a Milano da Marco Meneguzzo e dedicata all’«arte organica alla rivoluzione». Il titolo, linguisticamente corretto, suggerisce forse un’aura romantica a un’esperienza che appare 50 anni dopo decisamente cruda. La mostra (e il catalogo, con saggi importanti e numerose interviste) indaga con precisione critica i tentativi di interpretare da parte degli artisti attraverso mezzi linguistici diversi, dalla pittura al concettuale alla performance fino ai prodotti della controcultura, il proprio apporto alla contestazione.

«Per l’arte essere apartitica significa semplicemente essere del partito dominante» diceva Brecht, come ricorda Spadari a chiare lettere in una sua tela. Il sogno di una collettività condivisa è subito stretto nella morsa dell’ideologia. Qui non si tratta solo di contestare ma di conquistare. Il nodo è allora quello del legame tra arte e potere. Tra 1968 e 1978 si consuma il decennio dell’arte engagé all’inseguimento del popolo in gara con il consumo di massa imposto dal capitalismo. Dalle arti visive all’editoria, dal cinema alla musica, spesso con significative intersezioni, la parola d’ordine è impegno, punto di fusione più elevato tra arte e vita.

Ma come in ogni rivoluzione, l’elemento contestatario ambisce a diventare potere e spesso ci riesce. Così è stato per il ’68: non un potere politico vero e proprio ma certamente culturale. E per raggiungerlo si adotta un metodo efficace e antico come la storia: la propaganda. Che non è solo comunicazione di basso livello: c’è propaganda di altissima qualità artistica, e non è solo affare di regimi (la maggior parte dei quali, al di fuori forse del giacobinismo francese, della primissima rivoluzione sovietica e del fascismo italiano, hanno pessimo gusto). Da sempre un potere attraverso la forza persuasiva delle arti (quella capacità di convincere la ragione aggirandola attraverso le emozioni) autoproietta, costruisce e impone la propria immagine e il proprio ruolo nella società.

Visto a distanza e con disincanto, il ’68 ha messo in campo una formidabile macchina propagandistica, una narrazione di sé quasi in tempo reale che lo ha posto su un piano mitico e leggendario: il racconto di una rivoluzione. Che in quanto tale non può che essere violenta. Violento è il contenuto dei pittori di stampo Pop: se Umberto Mariani vira sul surreale, Franco Angeli impagina bandiere rosse e antimperialismo, Mario Schifano consiglia falce e martello come soluzioni alle contraddizioni della società, Fernando de Filippi intitola una serie Sparatoria e si trasforma in Lenin, Baratella in Se qualcuno vorrà ricordarlo (1972) incolla un’immagine di Calabresi mentre accanto c’è Viva Mao.

Nelle performance invece l’ideologia si stempera nell’ironia, come nelle azioni di Gianni Pettena o i gonfiabili di Franco Mazzucchelli dati in gioco agli operai dell’Alfa Romeo. È una sovversione che spezza dall’interno le regole del sistema, ed è quella genialmente esplorata su scala urbana da Ugo La Pietra.

Ma oggi è davvero doloroso leggere nelle poesie visive di Nanni Balestrini «Sì alla violenza operaia contro lo sfruttamento». Una violenza che diventa insopportabile nei fogli della cultura alternativa. Così si scriveva nel marzo ’73 sul Re Nudo: «La morale borghese ci insegna che la felicità non esiste. Il comunismo, non scordiamolo, vuol dire anche felicità. E se per arrivarci dovremo essere cattivi, cioè assassinare i nostri nemici, non dimentichiamo che loro da 2000 anni ogni giorno ammazzano la gioia di esistere».

Milano, Galleria del Credito Valtellinese

ARTE RIBELLE 1968-1978

Fino al 9 dicembre