Agorà

STORIA. Armeni, nuove prove sul genocidio

Lilit Sahradyan venerdì 24 aprile 2009
Il nonno tacque lungo la sua vita nell’Armenia sovietica. Nonostante le sue eccezionali doti, la passione per la ricerca che lo aveva portato a piantare un intero giardino in cui seguire anno dopo anno le combinazioni genetiche e gli incroci fra le specie diverse – dando ad ogni novità da lui creata uno dei nomi dei suoi figli –, non si espose mai a livello nazionale. Qualche articolo qua e là, l’insegnamento a scuola (dove fu vicedirettore, e non entrò mai nel Partito comunista per diventare direttore) e il suo lavoro di genetista solitario non si interruppero mai. Eppure poteva trasmettere valori alti; chi gli era vicino imparava a non accontentarsi mai della banalità e ad andare oltre. A cinque anni imparammo a leggere, a otto anni a giocare a scacchi, a eccellere a scuola; sapeva trasmettere l’amore per il nuovo, per l’irraggiungibile, sfidare l’ambiente e vivere pienamente. Le sue favole armene ci riempivano dell’orgoglio di appartenere a quella nazione. Eppure c’era del silenzio attorno al nonno. C’erano momenti in cui era irraggiungibile, chiuso nello studio, davanti alla scrivania con la lampada accesa, immerso nella lettura o nella meditazione; o nel giardino, con la sua inesauribile energia nella ricerca del nuovo. Avevo quattordici anni, quando un venerdì pomeriggio capii il mistero del suo silenzio. Soprattutto il perché della sua vita riservata in Unione Sovietica, dove pure tutto, almeno in quegli anni e nel campo scientifico, respirava un’aria fertile. Mia madre quel giorno disse che il nonno era un sopravvissuto al genocidio del 1915. In Armenia stava per uscire il decreto legge che avrebbe tolto dalla letteratura armena per le scuole tutti gli scritti dedicati al 1915; a dire del ministero per l’Istruzione, contaminavano di una triste memoria la gioventù armena. La legge non passò perché la gente protestò con forza: qualsiasi sia il nostro passato, fa parte della nostra cultura e dell’identità, non se ne può prescindere. I nostri genitori avevano deciso di tenere lontano i bambini da quel triste avvenimento, ma fui grata a mia madre quando tolse la maschera dal nonno. Forse non l’aveva affatto, ma quel terribile silenzio sul suo passato e quell’inspiegabile riservatezza lo aveva allontanato dal resto del Paese e da noi. Non furono tante le cose che ci dissero. Fuggì ai massacri e alla deportazione grazie a sua madre, che prese con sé lui, di cinque anni, e la figlia grande, di otto, e fuggì verso le montagne; da là camminò di notte, sempre nascosta e sotto minaccia di essere vista, verso l’Armenia russa – il Paese allora era diviso in due parti: quella occidentale, sottomessa all’Impero ottomano; quella orientale prima all’Impero russo e poi all’Unione Sovietica. Non ci furono gli strazianti racconti di quella triste fuga, ma quello di un evento lacerante che probabilmente segnò la loro presa di coscienza di non potere più vivere nell’Impero ottomano. La zia del nonno, Shoghakat, nota nel paese per la sua bellezza, era da tempo stata notata dal pascià curdo della regione. In tempo di pace si dichiarava amico di mio bisnonno, ma quando iniziò la persecuzione mandò i suoi uomini a rapire la ragazza, mentre il capofamiglia era in viaggio d’affari in Europa. La ragazza non cedette e scappò di casa; corse verso l’Eufrate, inseguita dagli orribili esecutori della volontà del pascià. Capì di avere due possibilità: arrendersi a quegli uomini e finire nelle mani del pascià curdo, quindi entrare nel suo harem e convertirsi all’islam, oppure morire. Si buttò nel folle Eufrate primaverile. I soldati, furiosi, devastarono la casa e uccisero i servi; quando furono partiti, la mamma del nonno prese i suoi figli e scappò sulle montagne vicine. Le fonti confermano che criminali curdi vennero liberati dalle prigioni del governo ottomano e armati contro gli armeni. Di mio nonno e della sua fuga non abbiamo più saputo nulla; sappiamo solo che fu affidato a un orfanotrofio americano in quanto sua madre, priva di mezzi, non poteva prendersi cura contemporaneamente di lui e di sua sorella. Si diplomò e successivamente si laureò all’Università di Tbilisi, in Georgia, nella facoltà di Biochimica. Tornò in Armenia per lavorare nei villaggi sperduti; si stabilì in uno di questi, Horom, e non lo abbandonò più, anche se non lo considerò mai come il suo Paese: fu sempre un ospite nell’Armenia sovietica. Solo quando la mamma raccontò di quel triste 'segreto' del nonno, capii perché non era mai esposto in un’attività professionale pubblicamente visibile. Non fece mai domanda per far parte del Partito comunista, cosa rara per un cittadino sovietico e soprattutto per coloro che volevano intraprendere una carriera. Lo vedevamo sempre alle cinque di pomeriggio raccolto davanti alla radio in cerca de La voce d’America, un programma alla radio degli armeni degli Stati Uniti, anch’essi superstiti del genocidio. E lui era sempre con loro: pur in Armenia, anche lui lontano dalla sua terra e dalle sue origini, in diaspora.