Agorà

SCENARI. Arabi cristiani, il cruccio delle Primavere

Maroun Lahham martedì 22 gennaio 2013
​Nei Paesi del Medio-Oriente parlare della diversità dell’altro è all’ordine del giorno. Diversità di religione ma anche diversità all’interno di una stessa religione. Per un arabo cristiano vivere il diverso è un’esigenza pratica prima ancora di essere una vocazione. Un cristiano arabo che nasce in un Paese musulmano cresce con una mentalità "minoritaria". In questo c’è del buono (solidarietà all’interno del gruppo religioso, serietà sul lavoro, formazione intellettuale avanzata, dovere di testimonianza), e del meno buono (tentazione di ripiegamento identitario, paura, sensibilità, instabilità…). Si finisce per acquisire inconsciamente una mentalità minoritaria di chiusura nello status quo, che teme il cambiamento e porta a una certa complicità con il potere politico per paura del futuro. In effetti, nella lunga storia delle Cristianità orientali si nota come queste il più delle volte si siano piegate piuttosto di combattere, siano scese a patti piuttosto di resistere. Non è un giudizio ma una costatazione. Le reazioni e le posizioni della maggior parte delle Chiese del Medio Oriente in merito ai recenti avvenimenti che hanno scosso il mondo arabo riflettono questa realtà. Si preferisce ciò che esiste e che protegge a ciò che potrebbe succedere e non garantire la stessa protezione, soprattutto se, come minoranza, si è "protetti" da un’altra minoranza. È il caso della Siria. Detto questo, un arabo cristiano del Medio Oriente non è necessariamente infelice. Non parlo delle situazioni economiche (generalmente è più agiato a livello economico tranne, forse, in Egitto) o politiche (è generalmente meno avvantaggiato, soprattutto in Egitto), mi colloco al livello della vita di un cristiano in terra d’Islam. Ci sono dei punti che aiutano il cristiano arabo a sentirsi più o meno "a casa sua". Innanzitutto una lunga storia. Sono più di quindici secoli che gli arabi cristiani vivono con gli arabi musulmani. Sarebbe ingenuo pensare che questi quindici secoli siano trascorsi senza scontri, senza alti e bassi (i tempi più duri sono stati la fine del regime abbaside e poi il periodo mamelucco e ottomano). Ma è altrettanto vero che una coesistenza così lunga ha forgiato, negli uni e negli altri, la convinzione che l’altro (cristiano o musulmano) sia parte integrante della propria storia, cultura e civiltà. Occorre poi tenere conto del fatto che gli arabi cristiani in generale si sono sempre considerati arabi (soprattutto la Giordania, la Palestina e la Siria). La loro appartenenza al "mondo arabo", nella sua grande componente musulmana, non crea problemi. Essi sono originari del Paese, allo stesso livello, se non di più, degli arabi musulmani, ciò che offre loro una garanzia morale e rende logico a loro come ai musulmani il fatto che il Paese, la società e la vita quotidiana siano islamo-cristiani. Chi legge la storia politica del Medio Oriente vede una serie di occupazioni e guerre che non hanno risparmiato né i cristiani né i musulmani: crociati, mamelucchi, turchi, inglesi, francesi, israeliani… In tutte queste sofferenze, la dimensione nazionale, ovvero quella dell’arabità, ha prevalso sulla dimensione religiosa. In Terra Santa, per esempio, gli arabi (cristiani e musulmani) hanno lottato insieme contro l’occupazione dei Crociati (cristiani), contro l’occupazione dei Turchi (musulmani) e lottano ancora contro l’occupazione degli israeliani (ebrei). Accanto a questi punti positivi ci sono anche malintesi, rimpianti, zavorre storiche, pregiudizi, questioni ancora senza risposta. Posso citare per esempio la "strada" musulmana. Non parlo dell’élite intellettuale né dei dirigenti politici. La strada musulmana a volte guarda con un’ombra di dubbio l’arabo cristiano e la sua appartenenza sincera e totale alla "causa araba", soprattutto politica. E questo è dovuto al fatto che le tre istituzioni che formano la "strada musulmana", la famiglia, la scuola e la moschea, non parlano o parlano male dell’altro. Questa "cattiva informazione" segna intere generazioni. Vi è poi un altro malinteso di natura storica. Come l’Occidente confonde facilmente l’arabo col musulmano, così l’Oriente confonde facilmente l’occidentale col cristiano. L’arabo cristiano è facilmente associato a tutto ciò che fa l’Occidente (crociate, colonialismo, sionismo, conflitto israelo-palestinese, guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan…). L’arabo cristiano sente continuamente il bisogno di affermare la propria "arabità" e di ribadire di non essere per nulla favorevole a ciò che l’Occidente fa a livello politico, economico e militare. Una terza fonte di malessere deriva dalle statistiche. Dei quindici secoli di coesistenza con i musulmani ben tredici sono stati vissuti in uno status di minoranza. Nel corso dei secoli, lo status di maggioranza musulmana e di minoranza cristiana ha plasmato una mentalità che non facilita sempre il dialogo. Da parte della maggioranza, si parla facilmente di tolleranza, protezione, addirittura di privilegi, ciò che i cristiani arabi rifiutano poiché ritengono che la cittadinanza, i diritti e i doveri, derivino dalla persona umana, non dalle statistiche. Da parte della minoranza vi è, oltre a ciò che ho già detto, una certa tendenza alla paura, alla ricerca di una protezione straniera, una certa resistenza a scendere in piazza e a esagerare i piccoli incidenti quotidiani. Bisogna aggiungere che la parte maggioritaria non ha ancora fornito ai cristiani garanzie ufficiali e chiare capaci di dissipare queste apprensioni derivanti dalla psicologia, dalla storia e dalla prudenza. L’ultimo elemento è l’islamismo crescente in molti Paesi, a prescindere dalle diverse colorazioni. Anche nei Paesi arabi che non sono focolai di islamisti, la compenetrazione del religioso e del politico nell’Islam dà luogo a un nuovo vocabolario a tinta islamista che rafforza l’apprensione dei cristiani arabi (l’Islam è la soluzione, le nuove crociate, lo statuto di dhimmî…), accentuata dalle tendenze "islamizzanti" sempre più evidenti nei Paesi della famosa Primavera araba: Tunisia, Libia, Egitto, Marocco. Ma essere in Medio Oriente o in Africa del Nord, nel Mashreq o nel Maghreb, è un dettaglio. L’importante è sapere che il fatto di essere e vivere la propria fede in un determinato Paese non è mai frutto del caso. C’è sempre una volontà di Dio che noi dobbiamo cercare di comprendere, accettare e vivere.