Agorà

La scomparsa. Appelfeld e la Shoah vista con gli occhi di un bambino

Lorenzo Fazzini venerdì 5 gennaio 2018

Non ce ne voglia la sua benedetta memoria, ma Aharon Appelfeld, lo scrittore ebreo deceduto l’altra notte all’età di 85 anni a Gerusalemme, la città dove abitava, era forse il più 'cristiano' dei romanzieri contemporanei appartenenti al popolo eletto, coloro che si sono dovuti confrontare col dramma dell’Olocausto, vissuto in prima persona e per vie familiari dallo stesso Appelfeld. Il quale è stato narratore di assoluto valore e di inusitata grandezza: Primo Levi e Philip Roth hanno parlato di lui come di una delle voci più significative tra chi ha messo in pagina la Shoah. Uno scrittore che univa una capacità narrativa universalmente riconosciuta (oltre 20 i premi letterari vinti in ogni angolo del globo: giusto per citarne alcuni, Premio Israele, Premio Mèdicis in Francia e Premio Napoli in Italia) a un’umanità appassionata che lo ha fatto amare anche da noi, spesso ospite in rassegne culturali: tra quelle da ricordare negli ultimi anni, Pordenonelegge nel 2012, la Milanesiana (dove nel 2011 ricevette il premio 'Rosa d’Oro') e il Centro culturale di Milano, che con mister Appelfeld aveva intrecciato una relazione di speciale amicizia. Sono stati molti i punti di contatto tra il narratore di Badenheim 1939 (il romanzo che lo fece conoscere al grande pubblico, edito da Guanda, come quasi tutti i suoi romanzi) e il panorama cristiano. Anzitutto, l’elemento della religiosità: Appelfeld non faceva mistero della sua adesione spirituale alla fede dei padri, non era incasellabile nella tradizione degli scrittori israeliani 'laici', coloro che, pur dovendo fare i conti con una cultura segnata dall’alleanza tra Abramo e il Dio della Bibbia, da tale tradizione se ne erano distanziati (Abraham Yehoshua o il già citato Roth, per esempio).

Certo, lo scrittore nato nel 1932 a Czernowitz, nell’allora Bucovina (oggi Ucraina), manteneva una distanza 'critica' dalla divinità, aderendo più a una visione 'negativa' della teologia: «Dio è una grande astrazione, gli uomini invece sono una grande realtà concreta. L’anima di Dio è troppo in alto per noi, non la raggiungiamo» confidò in un colloquio a chi scrive, pubblicato su queste pagine sette anni fa, nella sua casa piena zeppa di libri in un tranquillo quartiere a Gerusalemme. La voce narrante in Notte dopo notte (Giuntina) ricorda una verità a cui Appelfeld si è sempre attenuto: «Chi non crede nell’eternità dell’anima è come una pianta senza radici. Noi, grazie al cielo, siamo credenti figli di credenti». E nel libro Un’intera vita (voce narrante la dodicenne Helga) si legge: «Ogni giorno è pieno di miracoli, solo che noi li prendiamo come una cosa ovvia. Questa ottusità ci rende creature infime». I suoi romanzi sono stati tradotti in 28 lingue, segno che il nocciolo narrativo della scrittura di Appelfeld - il dramma della Shoah vissuto, spesso visto e raccontato con gli occhi dei piccoli - aveva conquistato migliaia di lettori ovunque. Infatti il giovanissimo Aharon venne deportato in un campo di concentramento in Transnistria (allora Romania) insieme al padre, da qui riuscì a fuggire e trascorse più di 3 anni alla macchia, affiancando l’Armata rossa nella lotta antinazista. Fino a quando riuscì ad arrivare in Italia e di qui partire per Eretz Israel, dove approdò nel 1946. L’insegnamento di letteratura ebraica all’università Ben Gurion a Be’er Sheva’ gli diede la possibilità di affermarsi passarono anni prima che iniziasse a scrivere i suoi romanzi sull’Olocausto - come uno degli scrittori israeliani più importanti del secondo Novecento.

La tragedia dello sterminio nazista rimase impressa per sempre nella mente del giovanissimo Aharon: nei forni crematori nazisti perse la madre e i nonni. E la sua carriera di scrittore è stata segnata dalla narrazione di quella vicenda, di quell’atmosfera tramite, spesso, gli occhi di un bimbo. Quello che avviene, ad esempio, in Paesaggi con bambina, dove la protagonista Tsili Kraus incontra un fuggiasco di un campo, Marek, alter-ego dell’autore, e con lui cerca una nuova vita dall’opprimente cappa anti-ebraica. Oppure l’autobiografico Storia di una vita, dove lo scrittore unisce i due elementi su cui ha fondato la sua poetica: la memoria e l’immaginazione. Cercando, nel doloroso ricordo dell’imprigionamento nel lager e la successiva vita da esule, di allargare e universalizzare quell’esperienza facendo parlare il dolore immenso ma anche la piccola, tenace gratuità del bene ivi incontrata. E qui si può rintracciare un secondo elemento che spiega la vicinanza al perimetro cristiano di cui si diceva prima: l’incessante fiducia nel Bene, nonostante l’aver incontrato e sperimentato il Male.

Appelfeld non nascondeva di credere e fidarsi di quei giusti anonimi che avevano rischiarato il buio del suo dolore. E questi incontri con la bellezza della bontà gli hanno detto molto di chi sia e cosa faccia Dio: «Questo è il modo con cui ci si può avvicinare al 'grande segreto' che è Dio: attraverso gli esseri umani» confidava sempre nell’intervista ad “Avvenire”, per poi continuare: «Intorno a noi non c’è solo un buio oscuro ma anche luci che illuminano. Quando ero nel ghetto o in campo di concentramento ho incontrato delle persone che mi hanno dato un pezzo di pane, semplicemente un pezzo di pane. Ma quel tozzo di pane mi ha dato la speranza che gli uomini non sono tutte bestie e che vi è ancora luce nella storia».