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Il film. “Antropocene”, il disastroso passo dell'uomo sulla Terra

Giuseppe Matarazzo venerdì 26 luglio 2019

Dandora Landfill #3, Plastics Recycling, Nairobi, Kenya 2016 / © Edward Burtynsky, courtesy Admira Photography, Milan - Nicholas Metivier Gallery, Toronto

Si stima che in Kenya nel 1973 ci fossero 167mila elefanti. Nel grande censimento del 2016 ne sono stati calcolati 25.959. Migliaia di elefanti sono stati uccisi nel tempo da cacciatori illegali di avorio. Il governo del presidente Uhuru Kenyatta ha lanciato un segnale al mondo perché si sospendesse una volta per tutte questo increscioso commercio: così dopo aver accumulato per decenni le zanne di elefanti e i corni di rinoceronti confiscati ai bracconieri, il 30 aprile del 2016, all’interno dei Nairobi National Park si è tenuto il più grande rogo d’avorio della storia. In una cerimonia solenne e liberatoria sono state distrutte 105 tonnellate di zanne: «Nessuno godrà di questa ricchezza creata dalla cattiveria e dal desiderio di ricchezza dell’uomo ai danni della natura e degli animali». È con queste fiamme che si apre Antropocene – L’epoca umana, il film che indaga l’impatto dell’uomo sul pianeta attraverso le straordinarie immagini di Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, presentato per la prima volta alla Fondazione Mast di Bologna in occasione del grande progetto espositivo multimediale – Anthropocene – che combinando arte, cinema, realtà virtuale e ricerca scientifica, documenta i cambiamenti che l’uomo ha impresso sulla terra e testimonia gli effetti delle attività umane sui processi naturali (mostra aperta fino al 6 ottobre, ingresso gratuito: info, orari e documenti su www.mast.org).

Terzo capitolo di una trilogia che include Manufactured Landscapes (2009) e Watermark( 2013), e frutto di quattro anni di lavorazione, Antropocene - L’epoca umana (che arriverà nelle sale cinematografiche a settembre grazie a Fondazione Stensen e Valmyn, dopo aver vinto il Premio del pubblico all’ultima edizione del Festival CinemAmbiente) in circa un’ora e mezza – con la voce narrante del Premio Oscar Alicia Vikander – propone un giro del mondo, in sei continenti, 20 Paesi, 43 luoghi incredibili, dove la bellezza è compromessa. Una provocatoria e indimenticabile esperienza della portata della nostra specie sull’equilibrio del pianeta, modificandolo come forse nessuna calamità è riuscita a fare. Il progetto si rifà espressamente alle ricerche condotte dall’Anthropocene working group, un gruppo di 37 scienziati che, a partire dal 2009, hanno raccolto prove per chiedere che il nome dell’attuale epoca geologica, l’Olocene, sia cambiato in Antropocene. L’Epoca Olocenica iniziò 11.700 anni fa quando i ghiacciai dell’ultima era glaciale si sciolsero. Ora ci sono ben altri fenomeni. E sono gli uomini a determinarli: il rendimento della terra abitabile attraverso l’estrazione mineraria, l’urbanizzazione, l’industrializzazione e l’agricoltura; la proliferazione delle dighe e il dirottamento dei corsi d’acqua; Co2 e acidificazione degli oceani a causa dei cambiamenti climatici; la presenza invasiva in tutto il mondo di plastica, cemento e altri tecnofossili; tassi senza precedenti di deforestazione ed estinzione.

Nella mostra al Mast – curata da Urs Stahel, Sophie Hackett e Andrea Kunard – 35 grandi immagini di Burtynsky dialogano e si intersecano con i filmati dei registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pensier (in alcuni giorni è possibile anche vedere l’intero film nell’auditorium), pannelli esplicativi e installazioni di realtà aumentata che proiettano il visitatore in maniera totalmente immersiva nei mondi rappresentati attraverso l’app Avara. Così la denuncia diventa consapevolezza. Dalle pareti di cemento in Cina che ora coprono il 60% della costa continentale, alle più grandi macchine terrestri mai costruite in Germania, dalle psichedeliche miniere di potassio negli Urali russi alle fiere di metallo nella città di Norilsk, dalla devastante Grande Barriera Corallina in Australia alla grande discarica di Dandora in Kenya, con migliaia di persone che vivono lì fra decine di metri di plastica e rifiuti. Fino a un pezzo di Italia: lo sbancamento delle Alpi Apuane, a Carrara, segnate dalle cave di marmo, sempre più richiesto in tutto il mondo.

«Da adolescente amavo andare a pescare percorrendo in canoa i corsi d’acqua sperduti e incontaminati delle Haliburton Highlands nell’Ontario – appunta il fotografo canadese Edward Burtynsky sul catalogo pubblicato da Ago per il Mast –. Quel contatto con la natura selvaggia influenza ancora oggi il modo in cui mi rapporto al paesaggio. Ho imparato ad apprezzare una realtà che esiste senza l’intervento o il disagio causati dall’uomo. Il nostro lavoro – aggiunge poi presentando il progetto a Bologna – può offrire uno sguardo avvincente su ciò che accade, la nostra è una testimonianza reale. Far vivere queste realtà attraverso la fotografia è come creare un potente meccanismo che dà forma alle coscienze». La pura cronaca che manifesta il significato di quello che accade. Di fronte al quale si può opporre la «resilienza», la capacità di reagire dell’uomo a ciò che l’uomo stesso sta generando. «Non vogliamo fare prediche , rivendicare o attribuire colpe – spiega Jennifer Baichwal – vogliamo semplicemente testimoniare, e da testimoni, cercare di smuovere le coscienze. Credo ancora che il pensiero e l’esplorazione trasversale, il confronto, generino una trasformazione più profonda e duratura rispetto a un’aspra contrapposizione ». «Usare la macchina da presa – aggiunge Nicholas de Pencier – come uno specchio e non un martello: invitare gli spettatori a essere testimoni di questi luoghi e a reagire ognuno a modo suo». Le immagini sono di una potenza incredibile. Lasciano senza parole. Che dire di fronte a quello che accade sotto gli occhi di tutti, di potenze mondiali incapaci di trovare un accordo globale? C’è solo da cambiare rotta. Farlo subito. «Stiamo andando verso un futuro incerto – continua Burtynsky –. Noi siamo i gestori del pianeta. Lo abbiamo gestito male. Non c’è tempo da perdere, ma possiamo ancora reagire. I giovani sono più consapevoli, sentono questa responsabilità. E questo fa sperare». Perché se il film è un pugno nello stomaco, che non lascia indifferenti nella drammatica bellezza con cui si racconta il disastro, tuttavia non c’è catastrofismo fine a se stesso. Non c’è ineluttabilità. Queste immagini sono un monito a cambiare il corso delle cose. Perché lo si può fare. Così, alla fine ecco ancora quel rogo. Il senso di quel rogo: un Paese che sa alzare la testa e puntare il dito contro gli interessi economici che uccidono la natura. Un rogo di ribellione. Un rogo che accende una speranza. Per l’uomo. Per le ere future.