Agorà

Ciclocross. L’altra bici piange tra fango e fatica

Giuliano Traini sabato 1 febbraio 2014
Una volta veniva chiamata “ruota infangata”, quando il fango nel ciclismo era solo terra impastata dall’acqua e non la metafora del doping. Il ciclocross era l’altra faccia di questo sport che si pedalava d’inverno quando i campioni della “strada” andavano in letargo o a fare “cassetta” al calduccio delle Sei Giorni. Era il re dello sterrato ma oggi è stato detronizzato dalla mountain bike, la disciplina arrivata dagli Stati Uniti capace di conquistare persino il palcoscenico olimpico. Ma la passione per la bici da caricarsi in spalla resiste, anche se relegata in una nicchia, anche se a praticarla sono rimasti pochi irriducibili. Un “mondo piccolo” che a livello internazionale vive intorno alla Coppa del Mondo - ma le prove si corrono solo in Europa - e ai Mondiali, i prossimi si disputano domani in Olanda. Ed è proprio in quel fazzoletto di terra fra Paesi Bassi e Belgio che la tradizione delle gare nel fango viene reiterata. È da quelle parti che crescono i prim’attori di questo sport, relegando al ruolo di comparse tutti gli altri, a parte le solite eccezioni buone per confermare la regola. In Belgio i fuoriclasse del cross godono della stessa popolarità di uno stradista o di un calciatore. E anche i guadagni sono proporzionati, visto che alle gare si presentano puntualmente migliaia di spettatori, incuranti del freddo e del biglietto da pagare. In Italia il ciclocross sopravvive in Lombardia e nel Triveneto, nel resto del Paese è agonizzante, aggrappato a qualche volenteroso. I pochi che in inverno pedalano sugli sterrati con la bici da corsa appena arriva il caldo inforcano la mountain bike, perché è questa, ormai, che dà popolarità e anche da mangiare. Chi pratica il cross è cresciuto gareggiando su strada ed è abituato alla bici da corsa, al manubrio curvo e ai tubolari, e non vuole rinunciarci. Le passioni vanno coltivate anche a costo di diventare stakanovisti della fatica. Ne sa qualcosa Marco Aurelio Fontana, il più forte corridore italiano del fuoristrada e uno dei migliori del mondo, come conferma la medaglia di bronzo conquistata alle Olimpiadi di Londra nonostante la sua mountain bike avesse perso la sella all’ultimo giro. Fontana non vuole rinunciare al cross, così disputa qualche gara per preparare il campionato italiano, che poi vince, anche se sa che non potrà indossare la maglia azzurra al Mondiale. Al suo sponsor - l’americano Cannondale, lo stesso della squadra di Ivan Basso - il ciclocross non interessa, ha ingaggiato Fontana per vederlo primeggiare con la sua Mtb e non vuole vederlo prendere rischi inutili che possano comprometterne la stagione. Lo scorso anno aveva fatto un’eccezione ma solo perché il campionato del mondo si correva negli Stati Uniti. «Mi dispiace non poter rappresentare l’Italia», ha confessato con un filo di voce subito dopo la recente conquista della maglia tricolore, ma è realista e all’orgoglio nazionale deve anteporre la pagnotta. Nel ciclocross non c’è ritorno pubblicitario, così diventa una corsa ad ostacoli anche trovare degli sponsor. I pochi che investono lo fanno per ragioni di cuore non certo per interesse commerciale. In cima alla breve lista di mecenati svettano solo due nomi: Guerciotti e Selle Italia. Guerciotti a Milano produce biciclette e coltiva campioncini. Lo fa da sempre, da quando lo stesso titolare dell’azienda - Paolo - fino a 30 anni fa “sgomitava” sui sentieri con i più forti crossisti dell’epoca pubblicizzando il suo marchio. Poi, ha messo su la più forte squadra italiana, che tale è rimasta fino ad oggi, e per anni ha organizzato la corsa italiana più prestigiosa, intitolata ai genitori. Nella sua squadra corre Gioele Bertolini, 18enne talento del cross azzurro, fresco vincitore del titolo italiano Under 23, titolo che aveva vinto anche in tutte le altre categorie. A fargli da guida sui sentieri c’è l’esperto Enrico Franzoi, l’ultimo italiano a vincere la maglia iridata, 11 anni fa negli Under 23. A dirigerlo c’è Vito Ditano, due volte “mondiale” negli anni ’80 ed ex ct. Bertolini è l’unica prospettiva nel desolato panorama azzurro. In campo femminile, invece, c’è un presente che si chiama Eva Lechner: è l’unica in grado di avvicinarsi a un podio internazionale. «Il nostro è un piccolo mondo antico», sospira Guerciotti, diviso fra la nostalgia di un passato “artigianale” e lo slancio verso un futuro che lascia poco spazio alla fantasia. Nel ciclismo tecnologico e iperspecializzato di oggi non c’è più posto per una disciplina “romantica” come il ciclocross. Eppure è uno sport molto spettacolare, facile da seguire anche in tv. Basterebbe solo una attenta opera di marketing, ma questo sì è davvero un ostacolo troppo alto da saltare per il ciclismo italiano di questi anni. Il cross, poi, sarebbe una straordinaria scuola tecnica per i giovani e un’ottima palestra per la preparazione invernale degli stradisti che, invece, girano alla larga anche se hanno una particolare predisposizione. Non sono più i tempi di Roger De Vlaeminck che vinceva nel ciclocross - in bacheca ha anche una maglia iridata - e poi trionfava su strada già alla Sanremo. E nemmeno quelli di Robic “testa di vetro”, ostinato rivale di Coppi e Bartali sulle montagne del Tour, vincitore del primo titolo mondiale nel 1950. O di Adrie Van Der Poel, grande cacciatore di classiche e padre di Mathieu, 18enne fuoriclasse della specialità iridato anche su strada. Oppure di Luigi Malabrocca, la mitica maglia nera del Giro d’Italia. Persino Claudio Chiappucci non poteva fare a meno di scaricare l’adrenalina sul fango, e per anni ha indossato anche la maglia azzurra. Oggi gli stradisti restano lontani dagli sterrati, anche se ci sono cresciuti come lo slovacco Peter Sagan, l’olandese Lars Boom e il nostro Matteo Trentin, il vincitore di una tappa al Tour de France 2013, primo italiano ad alzare le braccia in Francia dopo 3 anni.