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Opera. All'Arena il "Rigoletto" neorealista lungo il Po

Giacomo Gambassi martedì 11 luglio 2023

All’Arena di Verona il “Rigoletto” di Giuseppe Verdi ambientato lungo il Po negli anni Cinquanta Il terzo atto con l’aria “La donna è mobile” si svolge su una casazattera

Il volto di Anna Magnani appare sullo schermo di un cinema all’aperto perso nella pianura del Po mentre le note del preludio di Rigoletto seducono gli spettatori. Ma la musica di Giuseppe Verdi non è la colonna sonora di una pellicola ritrovata o di un omaggio alla diva romana firmato da qualche cineasta. No, è l’esatto opposto. Gli scorci dei film neorealisti diventano lo sfondo del capolavoro del “cigno” di Busseto che da Mantova ai tempi del suo ducato trasloca fra case coloniche, canali di bonifica e balle di fieno nel Polesine degli anni Cinquanta. Terre legate al grande fiume lungo il quale Verdi nacque e decise di vivere che nel secondo dopoguerra si sarebbe trasformata in uno dei luoghi d’elezione del grande cinema italiano. Accade all’Arena di Verona nella seconda nuova produzione del cartellone che celebra i cento anni del festival estivo lungo l’Adige.

Dopo Aida che ha aperto la kermesse, tocca a uno dei titoli della trilogia popolare tornare sul più grande palcoscenico del mondo. In una veste neorea-lista, così come l’ha concepita l’eclettico Antonio Albanese, regista alla sua quarta produzione lirica e al debutto nell’anfiteatro veneto. È rimasto fedele al libretto, Albanese. E anche il rapporto di potere fra il duca di Mantova – che è un proprietario terriero, ammirato, temuto e invidiato – e il buffone di corte che si tramuta in un faccendiere assoldato fra i mezzadri. Nelle notti buie fra campi, acque stagnanti, pontili e strade in terra battuta non si susseguono solo amori, beffe, vendette e delitti, come vuole la trama, ma si proiettano anche film sotto il cielo stellato, si tengono tavolate nei cortili, si intona la celebre aria “La donna è mobile” su una casa-zattera ancorata alle sponde del Po.

Il tutto grazie a un complesso meccanismo scenico fatto di piani inclinati e piattaforme girevoli – in tilt alla prima – che, come in un film, accompagnano il pubblico da una scena all’altra per raccontare l’Italia povera da poco uscita dalla guerra e ancora lontana dal miracolo economico. Regge bene l’assetto narrativo concepito da Albanese, anche se manca l’abilità di far muovere chi è sul palcoscenico (comprese le masse di contadini) tanto da correre il rischio di scivolare nella staticità. Però è un allestimento che il pubblico scaligero promuove, compresi gli stranieri che affollano i gradini e magari sono a digiuno di pellicole nostrane. Meno convincente la direzione di Marco Armiliato: va bene optare per un Rigoletto “meditativo” ma certi tempi eccessivamente lenti lasciano perplessi. Così come interroga l’incapacità di sincronizzare a pieno l’orchestra e il palcoscenico. Ne fa le spese in particolare il francese Ludovic Tézier, baritono d’esperienza ma qui in difficoltà in due atti su tre.

Nelle quattro repliche dell’opera, in programma fino al 4 agosto, il cast cambia ogni volta: forza e debolezza dell’Arena. Forza perché si alternano nomi di richiamo (da Juan Diego Flórez a Piotr Beczala, da Rosa Feola a Luca Salsi); debolezza perché è innegabile lo sforzo di dover adattarsi ai mutamenti continui. È una Gilda da elogiare – nonostante alcune imperfezioni – quella di Giulia Mazzola, elegante, passionale e dolente. E, com’è ormai abitudine, divide Yusif Eyvazov che interpreta il duca di Mantova: c’è chi ne resta affascinato per l’energia e la generosità; chi lo censura per il controverso timbro vocale e le licenze che si concede. Su tutti spicca Gianluca Buratto, uno Sparafucile incisivo, dalla voce marcata e pulita, preciso e sicuro (nome fisso nel cartellone). Ottima la prova del coro: “Zitti, zitti, moviamo a vendetta” è da brividi.