Agorà

L'ANALISI. Aldilà, le domande degli scrittori

Alessandro Zaccuri venerdì 29 ottobre 2010
Il poliziotto Mike, che se ne intende, non ha dubbi: «I morti non sono mai morti». La frase è molto più di una semplice constatazione: a seconda di come viene interpretata, può apparire una minaccia o, al contrario, un messaggio di speranza. Nel romanzo in cui la si legge (La ragazza dei fiori morti di Amy MacKinnon, traduzione di Stefano Bortolussi, Rizzoli, pagine 310, euro 19) conserva tutta la sua ambiguità, e non soltanto perché al centro della storia c’è l’imbalsamatrice Clara, una donna che tenta di venire a patti con il suo passato ricomponendo e rivestendo cadaveri. A colpire, in questa come in molte altre narrazioni contemporanee, è piuttosto l’insistenza sulla "soglia", sul confine invisibile che separa il mondo dei vivi da quello dei morti. Nella fattispecie l’immagine è quella, già mitologica, del fiume: a chi è approdato sull’altra riva viene data, di tanto in tanto, la possibilità di immergersi una seconda volta e di tornare così da questa parte. Vivere di nuovo, insomma, dopo essere passato attraverso la morte.Non esattamente una resurrezione, ma di sicuro qualcosa che a una resurrezione assomiglia molto. Del resto anche il classicista Dino Baldi, nel suo estroso ed eruditissimo Morti favolose degli antichi (Quodlibet, pagine 396, euro 16), avverte che sì, nel mondo greco e romano la morte è anzitutto «perfezione», e cioè «compimento» di vita, ma questo non significa che a fianco dei trapassi esemplari di Socrate, di Seneca e di tanti altri, non vada censito pure qualche caso di morte «imperfetta». Non avendo in simpatia il cristianesimo, Baldi liquida la resurrezione di Gesù declassandola ad «apparente» (è il noto argomento polemico del Discorso vero di Celso, già confutato da Origene), ma in compenso dedica pagine assai interessanti al mito platonico di Er, su cui poggia la credenza nella trasmigrazione delle anime, e alla favola tenebrosa di Filinnio, la bella trace di cui si narra che continuasse a vivere e a sedurre anche dopo la morte.Una vera antesignana, dunque, dei Diversamente vivi, protagonisti a Torino di una mostra allestita fino al 9 gennaio presso il Museo del Cinema (il catalogo, a cura di Giulia Carluccio e Peppino Ortoleva, è edito dal Castoro, pagine 230, euro 29). È una gran parata di «zombi, vampiri, mummie e fantasmi» tra grande e piccolo schermo, ben documentata eppure già bisognosa di aggiornamento, se si considera che dal 1° novembre è in arrivo su Fox (canale 110 di Sky) la miniserie The Walking Dead, che il regista Frank Darabont ha tratto dal graphic novel di Robert Kirkman e Tony Moore. Siamo ancora dalle parti del proverbiale La notte dei morti viventi di George A. Romero (1968), con il manipolo di sopravvissuti che combatte per sfuggire all’orda degli zombi, eppure la paura rimane intatta. Ed è, non a caso, la paura ancestrale che la "soglia" risulti permeabile, consentendo ai morti di confondersi con i vivi.Nel corso del XX secolo il tema ha conosciuto innumerevoli variazioni. Una delle più inconsuete è probabilmente quella suggerita da Pilgrim, un romanzo del canadese Timothy Findley edito originariamente nel 1999 e oggi riproposto da Neri Pozza con il titolo L’uomo che non poteva morire (traduzione di Massimo Birattari, pagine 604, euro 12). In questo caso la "soglia", anziché rimanere semiaperta, è irragionevolmente sbarrata: il misterioso paziente preso in cura da Carl Gustav Jung nella primavera del 1912 passa da un tentato suicidio all’altro, ogni volta la sua morte viene clinicamente accertata e ogni volta lui si risveglia – un po’ conte di San Germano e un po’ Ebreo Errante – per rievocare qualcosa della lunghissima esistenza che gli è toccata in sorte.Il libro di Findley mescola personaggi storici e figure immaginarie, in un procedimento che ricorda quello adottato da Gianfranco Manfredi in Tecniche di resurrezione (Gargoyle, pagine 496, euro 18), secondo capitolo della saga di cui sono protagonisti i gemelli Aline e Valcour de Valmont, scienziata lei e medico lui, entrambi discendenti di una nobile famiglia caduta in disgrazia durante la Rivoluzione francese. Ambientate nei primi anni dell’Ottocento, le loro avventure si presentano come intenzionale rivisitazione del genere "gotico". E così, se nel primo volume (Ho freddo, 2008) Manfredi proponeva una rilettura razionale di presunti episodi di vampirismo, in Tecniche di resurrezione l’obiettivo è quello di riandare alle origini di un’altra ossessionante figura di "non-morto". Il revenant moderno per eccellenza è infatti la "creatura" del dottor Frankenstein, un mostro partorito non dalle penombre della superstizione, ma dall’abbagliante spregiudicatezza della scienza Il punto di partenza è costituito dagli esperimenti di rianimazione galvanica effettivamente compiuti a Londra dal medico Giovanni Aldini, esperimenti a loro volta intrecciati con l’attività semiclandestina dei resurrection men, i procacciatori di cadaveri da destinare alla dissezione nei teatri anatomici. Cantautore impegnato negli anni Settanta e oggi autore di romanzi e fumetti, Manfredi non può certo essere sospettato di nutrire scrupoli religiosi, eppure nell’affrontare un argomento così complesso (la "soglia", appunto) si sente in dovere di appellarsi al dibattito tra fede e scienza, facendo affermare a uno dei suoi personaggi che queste «sono più intrecciate di quanto si non si voglia ammettere», perché «entrambe si occupano dei segreti della vita e della morte».La conferma viene da una straordinaria ricerca storica di Maria Pia Donato, Morti improvvise (Carocci, pagine 240, euro 20). La scena si sposta a Roma, negli anni attorno al 1705, quando una serie di decessi apparentemente immotivati e comunque inattesi sembra delineare la minaccia di un’epidemia devastante.Preoccupazioni di salute pubblica non disgiunte dalla particolare sollecitudine pastorale scaturita dal Concilio di Trento (la morte improvvisa è da evitare ad ogni costo, poiché priva il fedele dell’estrema possibilità di pentimento) inducono Clemente XI a incaricare l’archiatra pontificio Giovanni Maria Lancisi di un’indagine i cui risultati confluiscono nel trattato De subitaneis mortibus. L’opera, apparsa nel 1707, costituisce una delle più precoci attestazioni dei moderni criteri di accertamento sulle "funzioni vitali" ed è, al tempo stesso, un documento cruciale nel processo che porterà la medicina a detenere una competenza pressoché esclusiva sul "processo" di morte. Che questo sia accaduto nella città dei Papi, e con il beneplacito di un Papa, dimostra che, quando ci si spinge sulla "soglia", il legame tra scienza e fede è talmente stretto da risultare indissolubile. All’epoca di Lancisi, peraltro, l’eventuale temporanea rianimazione di un cadavere poteva ancora avere lo scopo di consentire un’ultima penitenza, non diversamente da quanto avveniva nelle pie leggende medievali. Il ritorno in vita dei morti non era una minaccia, ma un messaggio di speranza, un segno di salvezza. Proprio come sarà, una volte per tutte, alla fine dei tempi.