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Romanzo. Alain Mabanckou: «Vi porto nella mia Africa, dove i morti sono sempre vivi»

Anna Pozzi sabato 13 aprile 2024

Lo scrittore Alain Mabanckou

«Les morts ne sont pas morts» - i morti non sono morti - si usa dire in Africa francofona. E in effetti nel nuovo libro di Alain Mabanckou, Sdraiati in affari (66thand2nd, pagine 232, euro 17), c’è una grande vitalità nel mondo dei defunti. Anche perché, in fondo, non è poi così lontano da quello dei vivi. Con il suo stile scanzonato e a volte paradossale, lo scrittore del Congo-Brazzaville, che vive tra Francia e Stati Uniti, affronta temi molto seri e attuali, a cominciare da quello della morte, da una prospettiva tipicamente africana. Che fa riflettere: la morte come parte integrante della vita; la vita annodata alle storie e ai vissuti dei defunti, che sono ancora realmente presenti, pur se in forma diversa, nel mondo dei vivi. Visibile e invisibile si intrecciano e talvolta si confondono: riti, credenze, tradizioni, aspetti culturali e religiosi rinviano a un universo di senso che è proprio del mondo africano. A cavallo, appunto, tra vita e morte. E con una buona dose di sense of humor.

Di passaggio in Italia, Mabanckou - che da una quindicina d’anni insegna letteratura di lingua francese all’Università della California di Los Angeles, ed è stato chiamato a tenere lezioni anche al prestigioso Collège de France di Parigi, dove si era trasferito dopo gli studi - porta con sé i mondi in cui vive, in bilico fra tre continenti: Africa, Europa, America. Eppure, anche in questo suo libro, torna alle origini, a quel mondo straripante di energia della sua infanzia e della sua gioventù, per restituircene un ritratto variopinto e, appunto, vitalissimo. Anche se il protagonista è un giovane prematuramente scomparso, il cui nome, Liwa Ekimakingai, significa “la morte ha avuto paura di me”.

Dal cimitero Frère Lachaise - versione locale e per soli poveri del famoso Père Lachaise di Parigi - Liwa ripercorre alcune tappe della sua vita, ricerca le persone più care, a cominciare dalla nonna, Ma Lembé, che l’ha cresciuto dopo la morte della madre, ma conosce e dialoga anche con altri “inquilini” del cimitero che, a loro volta, con le loro storie e le loro traversie, fanno emergere un quadro multiforme e problematico della società congolese, segnata da diseguaglianze e ingiustizie, dallo strapotere dei ricchi e dei politici e dalle manipolazioni di chi cerca di approfittare dei poveri.

Alain Mabanckou, a che cosa si è ispirato per questo romanzo?

«Questo libro è dedicato ai miei genitori. E in effetti è soprattutto ai racconti di mia mamma che mi sono ispirato, anche se poi mio padre aveva sempre un’altra versione. Più in generale ho attinto alle storie che circolano nella mia città di origine, Pointe Noire».

Un libro che parla della morte, ma che è tutt’altro che un libro triste.

«Non è un romanzo sul lutto, anzi. Rispecchia semmai il modo africano di vivere la morte. A differenza degli occidentali, da noi in Africa non è qualcosa di intimo o che va nascosto. È una questione pubblica, di famiglia, del quartiere, persino dell’intera città. Il defunto non può andarsene nell’anonimato: deve essere accompagnato e salutato da tutti coloro che lo hanno conosciuto, e persino da chi non lo ha mai incontrato. La morte si celebra tanto quanto una nuova vita. Perché in fondo lo è. E lo si fa con pianti, ma anche con canti e danze, cibo e bevande condivisi per diversi giorni».

C’è molto del racconto orale africano in questo libro, e non solo nelle storie e nei personaggi, ma anche nel modo di narrare. È così?

«Più che un romanziere mi sento un cantastorie, uno che racconta fiabe. In questo senso, sono molto vicino alla cultura orale della mia tradizione. Anche se poi scrivo perché avverto il bisogno di farlo, sento l’esigenza di raccontare qualcosa e questo mi fa pensare che molte sofferenze del mondo d’oggi derivino dal fatto che abbiamo perso il senso e il gusto del racconto e del mito».

Le sue storie sembrano senza tempo, ma poi sono facilmente riconducibili al contesto attuale africano. C’è anche un elemento autobiografico in questo?

«Ci sono temi che vivo molto profondamente. Tutti i miei romanzi, del resto, sono un po’ autobiografici. Autori come me scrivono con le viscere, vanno a fondo delle loro esperienze. Si può scrivere anche come “divertissement”. Ma quando lo faccio non mi diverto, mi metto in gioco».

In questo romanzo, in effetti, nonostante lo stile spesso irriverente e ironico, sono tanti i temi sociali e politici che emergono con forza.

«Anche quando scrivo storie che sembrano a cavallo tra mondo reale e mondo magico, parlo del presente. In questo libro, ad esempio, ci sono tutta una serie di questioni e sfide contemporanee: le ingiustizie sociali, le lotte di classe, la corruzione, la mancanza di scrupoli di uomini politici e di ricchi possidenti. C’è chi, per accrescere il proprio potere, arriva a far uccidere degli albini, una piaga diffusa in diverse parti dell’Africa; o chi, come il pastore di una delle nuove chiese diffuse in Africa, approfitta della fede e della miseria delle persone per i propri interessi».

Chi ne esce meglio è decisamente l’universo femminile. Perché?

«Si tratta di figure che tengono in piedi la società, che la mandano avanti e che stanno, in qualche modo, davanti agli uomini. Sono donne forti e combattenti e vorrei che venissero maggiormente riconosciute. Purtroppo in Africa, e non solo, il potere è stato mascolinizzato. Vorrei vedere più donne in ruoli rilevanti anche politicamente, perché sono convinto che darebbero un contributo fondamentale alla pacificazione e alla riconciliazione in molti contesti di crisi».

Lei ha terminato di scrivere questo libro a Bukavu e Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, dove è in corso un lunghissimo conflitto e dove, proprio in queste settimane, si sono inaspriti gli scontri, specialmente attorno a Goma, con milioni di persone costrette a fuggire. Che situazione ha trovato? E come hanno risposto i giovani alle sue lezioni di scrittura creativa?

«Nonostante la situazione di instabilità e precarietà ho trovato un incredibile entusiasmo nei giovani, la voglia di imparare, di condividere, di mettersi in gioco. I corsi erano sempre pienissimi. Spero che la situazione di crisi che si vive in quelle regioni non degeneri in un conflitto aperto tra Congo e Ruanda».

Lei è stato anche a Kigali per uno dei suoi corsi. Quest’anno il Ruanda commemora il trentennale del genocidio del 1994. Che clima si respira?

«Il Paese ha fatto enormi passi avanti ed è molto calmo, ma è tutta la regione che è sempre in disequilibrio e ci sono tanti interessi e questioni in gioco. Ecco perché penso che anche lì la scrittura possa avere un ruolo politico e sociale. A condizione che i giovani vengano educati innanzitutto a leggere».