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Cinema. Tala Derki: «Sono entrato con la mia cinepresa dentro al-Qaeda in Siria»

Riccardo Michelucci mercoledì 13 giugno 2018

Il regista Talal Derki

Uno sguardo intimo e familiare all’interno del radicalismo islamico, una prospettiva inedita sul rapporto tra padri e figli al tempo del Jihad e sull’indottrinamento dei cosiddetti “cuccioli del Califfato”. Nel suo nuovo lavoro Of Fathers and Sons, il regista siriano Talal Derki racconta sotto forma di documentario la vita dei bambini del generale Abu Osama, uno dei fondatori di Al-Nusra, il braccio siriano di Al-Qaeda, filmandoli durante le esercitazioni nei campi di addestramento ma anche nell’intimità della vita quotidiana. Per oltre due anni, il giovane film maker ha finto di essere un reporter filo-jihadista intento a realizzare un documentario sull’ascesa del Califfato e ha vissuto a Idlib, nel nord della Siria, a stretto contatto con Abu Osama e la sua famiglia, fotografando con crudo realismo il leader islamista radicale e i suoi tre figli piccoli, che hanno abbandonato la scuola per dedicarsi anima e corpo allo studio del Corano e all’addestramento militare.

Osama è un inquietante patriarca idolatrato dai giovani che lo seguono, un fervente sostenitore della Shari’a che ha chiamato i suoi figli come gli attentatori delle Torri gemelle e ha avviato i due più grandi (13 e 12 anni) sulla strada per diventare soldati della cosiddetta “guerra santa”. Nel film lo osserviamo sparare da un bunker, interrogare un gruppo di prigionieri catturati dalle truppe di Al-Nusra, persino sradicare a mani nude le mine da un campo. I suoi figli li vediamo invece tirare sassi alle ragazzine che escono da scuola senza coprirsi con lo hijab, esercitarsi come soldati indossando un’uniforme di Al-Qaeda a misura di bambino e infine giocare alla guerra, quasi senza rendersi conto che si tratta di una guerra vera.

Quella che emerge è una sorta di romanzo di formazione dei mostri di domani, un film che supera i confini del reportage bellico e del documentario descrittivo lasciando lo spettatore con la disperante convinzione che ci vorrà ancora molto tempo per uscire dall’attuale polveriera siriana. Derki riesce a svelare l’aspetto umano di una situazione eccezionale, raccontando la storia di un uomo che ha deciso un destino da martiri per i suoi amati figli maschi, eppure a tratti riesce persino ad apparire come un padre affettuoso e amorevole.

«Volevo analizzare la psicologia e mettere a nudo le emozioni di questa guerra», ci dice. «Capire cos’è che radicalizza quelle persone e le spinge a vivere sotto le regole molto rigide dello stato islamico. Anche se sono ateo ho pregato tutti i giorni con loro e condotto la vita del buon musulmano per comprendere cosa sta accadendo nel mio paese». Una scelta non soltanto assai rischiosa ma anche eticamente difficile, considerando che Talal Derki è un curdo siriano – peraltro costretto da tempo a vivere in esilio a Berlino – che afferma di essere assai distante dalle idee di Osama e del Califfato, e che ha quindi deciso di raccontare qualcosa che non condivide e anzi disprezza profondamente.

Of Fathers and Sons ha vinto il gran premio della giuria all’ultimo Sundance Festival, lo stesso riconoscimento che Derki aveva vinto nel 2014 con un altro documentario che fece molto discutere, Ritorno a Homs, in cui raccontava l’assedio della città omonima attraverso lo sguardo dei volontari locali che combattevano contro il regime di Bashar al-Assad.

Ha mai pensato di abbandonare in corso d’opera il progetto di questo film, ritenendolo troppo rischioso?

«Molte volte. In più occasioni ho detto al mio assistente alla regia – che è mia moglie – che intendevo andarmene. Ma poi riguardavo il girato e decidevo che valeva la pena tornare».

Quindi non è rimasto lì per tutto il tempo delle riprese?

«No, facevo avanti indietro con Idlib, ogni tanto tornavo dalla mia famiglia. A volte è stato estremamente difficile entrare e uscire. In totale ho girato per circa trecentotrenta giorni. Mi sono trovato lì proprio nel periodo in cui le due volontarie italiane ( Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, ndr) furono rapite ad Aleppo, nell’estate del 2014».

Crede che Abu Osama sia venuto a sapere che il suo film non è un’opera di propaganda come gli aveva fatto credere?

«Non ho idea ma di sicuro se lo sapesse ne rimarrebbe scioccato. Ovviamente non posso più tornare lì, e anche la mia vita in Europa non è molto facile».

Che impatto ha avuto questa esperienza per lei, sul piano personale?

«Oltre ai rischi è stato molto difficile e doloroso, in quanto siriano, seguire una persona con quelle idee e vedere il mio paese soffrire una completa riorganizzazione sociale e demografica, osservare da vicino tutta quella violenza e lo spostamento forzato della popolazione da una zona all’altra della Siria».

Vede una possibile soluzione alla guerra in corso nel suo paese?

«Sono tutt’altro che ottimista. Ogni volta che viene bombardata una città siriana altre persone si radicalizzano e si scelgono di diventare jihadisti. L’odio e la violenza vengono trasmessi di generazione in generazione. Credo che l’unica soluzione possibile sia in un maggiore intervento nel sistema educativo che ponga fine all’autorità assoluta dell’uomo che vige in certi paesi musulmani, dove il padre decide tutto della vita dei propri figli, come parlano, come si comportano, dove vanno, cosa studiano. Le donne dovrebbero ottenere maggiore libertà, dovrebbero essere fatti passi avanti nel campo dell’uguaglianza. E anche i bambini non dovrebbero essere più picchiati dagli insegnanti, com’è accaduto anche a me, quando ero piccolo».