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Intervista. Lo scrittore Al-Aswani: «L'Egitto attende ancora la democrazia»

Alessandro Zaccuri martedì 18 settembre 2018

Autore dell’acclamato Palazzo Yacoubian e di numerosi altri romanzi, ‘Ala al-Aswani è il più importante scrittore egiziano dei nostri anni, ma continua a esercitare la professione di dentista e, più che altro, tiene molto alla sua formazione scientifica. «Quando si pubblicano i risultati di una ricerca medica – dice –, si comincia sempre a fare chiarezza sulla terminologia. È un buon metodo, utile in qualsiasi discussione, quale che sia l’argomento». La letteratura, per esempio. Anche se il tema è lo stesso affrontato nel 2011 in La rivoluzione egiziana, il libro che al-Aswani presenterà domani nell’ambito di Pordenonelegge non è un saggio, ma un romanzo. Si intitola Sono corso verso il Nilo ed è tradotto da Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio per Feltrinelli (pagine 384, euro 18,00), la casa editrice che ha in catalogo l’intera opera dell’autore. «La narrativa richiede più tempo dell’intervento su un giornale, che può essere immediato – osserva lo scrittore –. Per raccontare una storia c’è bisogno di chiarirsi le idee, di concentrarsi sull’essenziale, di fare in modo che il fattore umano emerga in tutta la sua complessità». Ambientato nei nove mesi scarsi che separano la sollevazione di piazza Tahrir (25 gennaio 2011) dal massacro dei copti a Maspero (9 ottobre 2011), Sono corso verso il Nilo è un romanzo corale, come spesso accade nella produzione di al-Aswani. Ed è un affresco nel quale riveste un ruolo fondamentale il confitto tra le generazioni. «Prima di scendere nelle strade, la rivoluzione è iniziata nelle case», riassume l’autore.

In che senso?

«In ogni famiglia egiziana si confrontano continuamente due diverse opinioni, due diversi modi di guardare al mondo e alla società: gli anziani e gli adulti sono più conservatori, i giovani sono invece progressisti. La rivoluzione è stata opera loro ed è stata un evento pressoché inspiegabile, che ha qualcosa di addirittura miracoloso. In questo momento, nel mio Paese, vivono ancora due generazioni, quella dei padri e quella dei nonni, che si erano perfettamente adeguate ai regimi precedenti e che ancora oggi non riescono a capire perché i figli abbiano voluto mettere tutto in discussione. Dov’è il problema?, si domandano. Nel fatto che le elezioni non fossero libere, forse? Ma loro di libere elezioni hanno fatto a meno per tutta la vita, senza per questo rinunciare a curare i propri interessi: non impicciarsi di politica, lavorare sodo, far studiare i figli, sperare che, dopo la laurea, i ragazzi trovino un buon posto, che permetta loro di guadagnare molto. A tutto questo i giovani si sono opposti. Nel 2011 non si sono rivoltati solo contro Mubarak, ma anche contro i loro genitori».

Come se lo spiega?

«Non riesco a spiegarmelo, questo è il punto. Per un certo aspetto, fino a pochi anni fa l’Egitto è stata la miglior dimostrazione possibile della tesi sostenuta già nel XVI secolo da Étienne de La Boétie nel celebre Discorso sulla servitù volontaria: nessun despota è in grado di imporre la propria volontà a un popolo, a meno che quel popolo non sia disposto a sottomettersi. È andata avanti così per oltre mezzo secolo e poi, all’improvviso, i ragazzi e le ragazze di piazza Tahrir hanno trovato la forza di ribellarsi per rivendicare la libertà alla quale i genitori avevano ormai rinunciato».

E allora perché anche questa “primavera”, come le altre che si sono manifestate nel mondo arabo, non è durata a lungo?

«Questa volta la risposta è abbastanza semplice, purtroppo. Le armi di cui disponeva la rivoluzione del 2011 erano di natura esclusivamente morale: ideali, cultura, coraggio. Risorse straordinarie, ma insufficienti per strappare veramente il potere a un apparato statale che poteva contare e ancora conta sull’esercito, sulla polizia, su un onnipresente sistema burocratico. Se ci fermiamo a riflettere sui precedenti storici, del resto, ci rendiamo conto di come tutte le rivoluzioni abbiano richiesto tempo prima di imporsi».

Sì, ma questa volta la congiuntura internazionale è preoccupante.

«Conosco bene la situazione dei Paesi occidentali, in particolar modo degli Stati Uniti, dove attualmente risiedo. E ho appena finito di lavorare a un saggio che si intitolerà La sindrome della dittatura, nel quale mi occupo anche del fascismo italiano. Al di là delle diverse vicende nazionali, lo schema di base resta immutato: in un momento di confusione e smarrimento si avanti l’uomo forte, che promette di ristabilire l’ordine e riscattare l’orgoglio del Paese. Detto questo, però, è come per la storia dell’automobile».

Quale automobile?

«Si immagini due lavoratori molto poveri. Uno vive in Egitto e ogni giorno deve farsi tre ore di cammino a piedi per andare e tornare dal cantiere. L’altro è un europeo, svolge mansioni altrettanto umili, ma possiede un’automobile. Vecchia, vecchissima, sempre bisognosa di riparazioni e di manutenzione. Eppure, in un modo o nell’altro, la macchina continua a funzionare. Ecco, l’europeo può lamentarsi finché vuole, eppure si trova in una situazione decisamente migliore rispetto a quella dell’egiziano. Con la democrazia è lo stesso: non tutto è perfetto in Occidente, ma il quadro non è paragonabile a quello dei Paesi arabi».

Parlava di tempo. Quanto ne occorrerà perché la democrazia si affermi veramente in Egitto?

«Parecchio, se vogliamo dare retta al presidente al-Sisi. Nel 2013, quando il colpo di Stato militare ha rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani guidato da Mohamed Morsi, al-Sisi sosteneva che il Paese non era ancora pronto per la democrazia, il cui avvento avrebbe richiesto altri vent’anni. Di recente però il presidente ha corretto la previsione, fissando il termine a venticinque anni da adesso. Non mi sembra un buon segno».

Posso chiederle che idea si è fatta della morte di Giulio Regeni?

«L’ho conosciuto di persona, quando venne a intervistarmi nel mio studio al Cairo, e rimasi molto colpito dalla sua serietà e intelligenza. Non dispongo di prove che mi permettano di muovere accuse circostanziate, nondimeno ritengo che il dovere italiano abbia il dovere di chiedere giustizia. Vicende come questa di Regeni sono inaccettabili».