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All'Elfo Puccini. Afghanistan: la storia a teatro

Angela Calvini martedì 17 gennaio 2017

PEDINE DELLA STORIA. Il cast de “Il grande gioco - Afghanistan”, all’Elfo Puccini di Milano

«Alla fine del 2015 i rifugiati nel mondo sono 21 milioni 300 mila persone, in Europa 4.391.400, in Italia 118.047. Nel 2014 in Europa i rifugiati afghani sono 178.230 e le richieste di asilo di afghani 58.554». Le cifre scorrono sui tendoni bianchi che dividono i posti letto nelle camerate provvisorie di un centro di prima accoglienza. Sparse intorno, valigie, abiti, qualche branda. Questo “non luogo” pian piano si trasforma nei monti innevati dell’Afghanistan, nei palazzi degli emiri, nelle strade di Kabul, dove si muovono diplomatici inglesi, lady vittoriane, potenti mullah, militari americani.

Questa la scelta dei registi Elio De Capitani e Ferdinando Bruni che faranno conoscere in Italia Il grande gioco - Afghanistan un affresco teatrale diviso in 13 stazioni (11 nella versione italiana) che il Tricycle Theatre di Londra, la più importante fucina di teatro politico inglese, ha commissionato ad altrettanti autori inglesi e americani per raccontare il rapporto complesso che l’Occidente ha avuto con l’Afghanistan, stato dalla posizione geografica strategica per il controllo dei ricchi territori dell’Asia centrale. «Una metafora di tutti gli errori fatti in Medio Oriente e Asia e una storia che ci riguarda, se non altro perché dal 2002 a oggi la missione italiana in Afghanistan è costata circa 5 miliardi di euro e le vite di 50 soldati italiani – spiegano De Capitani e Bruni mentre provano lo spettacolo che debutta oggi al Teatro dell’Elfo di Milano –. Per capire quello che sta succedendo oggi, il dramma dei rifugiati, il terrorismo, la politica internazionale, occorre andare a fondo in una storia che inizia 180 anni fa».

Nell’era di internet e del bombardamento di notizie e immagini mordi e fuggi, paradossalmente viene in soccorso all’informazione uno strumento antico come il teatro. Oggi è l’era delle grandi epo- pee teatrali, estensioni del giornalismo tradizionale, come questo progetto che ha debuttato con successo nel 2009 a Londra suddiviso in tre capitoli: Invasione e indipendenza 1842 – 1930; Il comunismo, i Mujahedin e i Talebani 1979 – 1996 ; Enduring Freedom 1996 – 2010. Nella saga si racconta, appunto, quel «great game» grande gioco, espressione resa celebre da Rudyard Kipling nel racconto Kim, per definire il conflitto fra Gran Bretagna e Russia in Medio Oriente e Asia centrale nel corso del XIX secolo. E che si è trasformato, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, nell'operazione militare americana Enduring freedom affiancata dalla missione Nato Isaf (ora Sostegno Risoluto) che vede ancora impegnati circa 760 soldati italiani.

Purtroppo, secondo i rapporti delle Nazioni Unite, nonostante l’impegno nel tempo di 140mila soldati americani e 36mila di altre 32 nazioni, oggi i talebani controllano ancora il 10% della popolazione mentre 31 milioni di abitanti vivono in zone contese. «Il progetto The Great game è però un caso clamoroso – aggiunge Bruni –: il generale David Richards, capo delle Forze armate in Afghanistan, l’ha talmente apprezzato da obbligare i reduci di quella guerra e i soldati in partenza ad assistere allo spettacolo». I due registi dell’Elfo, che coproduce insieme a Emilia Romagna Fondazione Teatro, hanno scelto per la prima parte i testi di Stephen Jeffreys ( Trombettieri alle porte di Jalalabad), Ron Hutchinson ( La linea di Durand) e Joy Wilkinson ( Questo è il momento) che riguardano il periodo 1842-1930.

«Nel primo atto il figlio del khan ha promesso agli inglesi un ritiro in pace, ma su 220mila uomini ne arriveranno in India solo 70, gli altri verranno trucidati. È metafora e parabola del disastro: questa terra è una trappola geografica dalla quale non puoi più uscire» spiegano Bruni e De Capitani, che collegano le varie parti con spiegazioni storiche corredate da video, immagini d’epoca, cartine.

Si parte dal tentativo degli inglesi di creare uno stato cuscinetto culminato nella disastrosa ritirata nel 1842, sconfitti dalla resistenza armata ispirata dai mullah. «Voi non ci capite» dice in una battuta illuminante l’emiro Abdur Rahman Khan, incoronato dagli inglesi dopo la seconda guerra angloafghana, a sir Mortimer Durand che, anno 1893, si affanna a disegnare a tavolino i confini di un Afghanistan che in realtà non esiste nella sua fluida e incandescente realtà tribale.

E così, si passa attraverso la terza guerra angloafghana del 1919 alla nascita dell’Afghanistan moderno e indipendente sotto il re Amanullah Khan, costretto poi alla fuga. Nella seconda parte, con i testi di Lee Blessing (Legna per il fuoco) e David Greig (Minigonne di Kabul) sul periodo 1979-1996, arriva l’invasione sovietica del 1979 (con la clamorosa ritirata dieci anni dopo) mente gli Stati Uniti armano i mujahiddin ribelli, decisione che anni dopo si ritorcerà contro lo stesso Occidente.

Cala il sipario sulla barbara uccisione da parte dei talebani dell’ex presidente della Repubblica Najibullah quando presero Kabul nel 1996. I capitoli sui talebani e su Enduring Freedom saranno allestiti l’anno prossimo. Purtroppo, come scriveva Peter Hopkirk, nel saggio Il grande gioco. I servizi segreti in Asia centrale (Adelphi, 2004) «sembra che le dolorose lezioni del passato ci abbiano insegnato ben poco».