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Tennis. Panatta racconta: le memorie di Adriano tra miti e demoni

Massimiliano Castellani mercoledì 8 luglio 2020

La mia generazione, quelli nati alla fine dei ’60 e la metà dei ’70, sognava di essere Adriano Panatta. Un modello di sportivo e anche di uomo, uno di quelli, che in campo e fuori, “non doveva chiedere mai”. Un Adone del tennis, specie accanto al suo “doppio”, Paolo Bertolucci, alias “Pasta Kid”. La loro storia di doppisti azzurri, che dal Cile riportarono l’unica Coppa Davis vinta dall’Italia (anno di grazia 1976), l’ha raccontata il regista Mimmo Calopresti nel film dedicato a Panatta, La maglia rossa. «In quel film c’è lo spirito degli anni ’70, la nostra vittoria in un Cile che viveva sotto il regime di Pinochet. C’era un’atmosfera strana, ma la tensione maggiore l’ho vissuta nell’Argentina di Videla: dall’albergo al campo si andava scortati dalle camionette dell’esercito. Un clima surreale...», mi ha raccontato Adriano in un’intervista di qualche anno fa.

Panatta è una miniera di aneddoti, uno Svetonio dei “gesti bianchi”. E per fortuna, tutte le storie, vissute o riportate, non le ha gettate via come un setball ma ha saggiamente cominciato a raccoglierle. Giocando in doppio con Daniele Azzolini, ha pubblicato Il tennis è musica (Sperling&Kupfer) e poi ha concesso il bis, con il più recente Il tennis lo ha inventato il diavolo (Sperling& Kupfer. Pagine 295. Euro 19.50), entrato nella sestina dei vincitori del Bancarella Sport 2020). Un viaggio quasi dantesco, attraverso gironi e personaggi che hanno scolpito l’epica del tennis, e che soprattutto sono rimasti nella memoria di Adriano per «i colpi impossibili, le pazzie dei campioni e tutti i match in cui il demonio ha messo la coda».

Una visione infernale quella del nostro eroe, confermata in quasi tutte le vicende descritte. Da quelle cominciate malissimo e finite con un epilogo celestiale, come nel caso di Ion Tiriac, il tennista romeno passato dalla quasi “miseria” all’impero attuale dell’invidiabile “billionaire” (patrimonio stimato sui 1.200 milioni di dollari); fino alla parabola drammatica del giapponese Jiro Sato, n.3 del mondo che nel ’34 morì suicida mentre andava ad affrontare l’ultima trasferta di Coppa Davis. Il diavolo prima o poi tocca ai Nadal (messo in copertina) come all’ultimo sherpa del tabellone: in ogni match può subentrare strisciante, ed è capace di cambiare non solo la partita ma l’intero destino di un atleta.

Questi demoni dostoevskiani che all’improvviso scendono in campo e si impossessano della terra rossa, come del sintetico o dell’erba, decidendo la sorte dei giocatori, non hanno certo fatto sconti a Panatta. A volte quei demoni lo hanno aiutato a restare saldo sul trono imperiale del Foro Italico, dove tutto poteva accadere – anche perché supportato da un pubblico osannante e capace di portare l’avversario, lo straniero, sull’orlo di una crisi di nervi – così come a Wimbledon (1972), a un passo dall’apoteosi, il 22enne Panatta in piena ascesa nel ranking, scivolò ai quarti contro il non irresistibile DuPré. Una pagina melanconica, che ci rispedisce sul viale ombreggiato della nostalgia, a un tennis più umano e più vero (finito con gli anni ’80), forse perché prima della macchina da soldi e del divo patinato veniva l’Uomo.

I tennisti, anche quelli come lui, entrati nell’élite della top-ten, viaggiavano da soli, senza le odierne e mostruose truppe cammellate composte da coach-guru, fisioterapisti, manager, accordatori e claque, al seguito dei campionissimi. Speriamo che almeno Jannik Sinner sfugga a tutto questo, e che Panatta – fuori pagina – abbia ragione: «Mai visto uno della sua età così forte e maturo, Sinner di testa sembra un uomo di 65 anni... ». Parola del 70enne, ma eterno giovane Adriano.