Agorà

Letteratura. Addio a Elena Bono, scrittrice di un suo «Quinto Evangelio»

Massimiliano Castellani venerdì 28 febbraio 2014

Una preghiera, prima dell’addio dolceamaro: chi non l’ha mai conosciuta, né sentita nomina­re prima, da oggi provi a cerca­re, ma soprattutto a leggere, i libri di E­lena Bono. A 93 anni (era nata a Sonni­no - Latina - nel 1921) all’ospedale di La­vagna nella serata di mercoledì è volata via la voce femminile (segue di poco l’ad­dio a Eugenio Corti) più originale e an­che la più “dimenticata” della letteratu­ra di matrice cattolica.«Una notte che ero molto malata, im­provvisamente, aprii gli occhi e vidi di spalle una figura umana. Pensai sgo­menta: hanno fatto del male a que­st’Uomo... Lo riconobbi: era Gesù fla­gellato. Il suo volto raccoglieva tutto il dolore del mondo. Da quello sguardo è scaturito Morte di Adamo ». Così, poco tempo fa Elena Bono spiegò ad “Avvenire” la gestazione di quel libro epocale, edito da Gar­zanti nel 1956 e poi fini­to ingiustamente nel di­menticatoio. Una perla d’autentica narrativa a sfondo religioso (come tutti gli otto racconti bi­blico- evangelici che lo compongono) che Emi­lio Cecchi salutò come un capolavoro: «Vent’anni in anticipo – scrisse il critico – sul Quinto Evangelio  di Mario Pomilio (pubbli­cato nel 1975) e su tutto il filone da esso discen­dente delle riscritture della Buona Novella».Una poetica in odore di misticismo quella della Bono, convinta dal profondo del suo buon cuore di non aver mai scritto un solo rigo, del­la vasta e ancora ignota bibliografia, se non sot­to dettatura della “Vo­ce”. «È quella “Voce” che mi presenta i personag­gi dei miei libri e io ho solo il compito di deci­frare i loro pensieri, le diverse lingue in cui si esprimono per poi tra­scriverle », raccontava dal suo piccolo regno di ricordi santi e civili: la palazzina liberty affacciata sul mare di Chiavari, dove oggi - alle 15.30 - nella cattedrale di Nostra Signora Dell’Orto si celebreranno i funerali.Con estrema lucidità, seduta alla pol­trona del suo salotto letterario (l’unico salotto che ha frequentato) amava in­contrare le persone desiderose di con­frontarsi con la «Storia» che l’aveva vista impegnata in prima linea come “poe­tessa della Resistenza”. Memorie parti­giane che racconta nel Fanuel Nuti  che non si può non far leggere nelle scuole. «Con la mia trilogia Uomo e superuomo (conclusa dal tomo del  Fanuel Nuti) ho voluto raccontare anche la guerra vista dalla parte tedesca». La sua lunga notte del 1943, rivive nei versi struggenti del­la raccolta  I galli notturni  (Garzanti 1952): «Così semplice era tutto: chiude­re gli occhi e guardare». LuchinoVisconti guardò con vivo interesse al testo del ro­manzo  Una valigia di cuoio nero, al pun­to da volerne fare un film. «Poi non se ne fece nulla, ma una sera, a casa di Emilio Cecchi, Visconti disse che il mio Ippoli­to  (testo teatrale edito da Garzanti nel 1954) gli aveva ispirato il personaggio di Rocco per  Rocco e i suoi fratelli», rac­contava orgogliosa la Bono che amava il cinema, così come ha sempre avuto una spiccata simpatia per i giovani ve­nendone ricambiata. Lo dimostrano le tesi di laurea, che in questi anni comin­ciano a a proliferare. Merito anche del­le faticose ristampe dei suoi libri, a ope­ra della piccola e generosa casa editrice di Francangelo Scapolla, Le Mani di Rec­co, che dagli anni ’80 ha pubblicato l’o­pera omnia di colei che non amava sen­tirsi chiamare “autrice”.Eppure proprio ora che ci lascia si se­gnalano in aumento le voci critiche che la considerano tale: «Autrice con la “A” maiuscola», dice la ricercatrice Stefania Segatori, che con Giuseppe Langella, do­cente all’Università Cattolica di Milano, da tre anni sta curando una biografia monumentale sulla figura e le opere del­la Bono. Oggi, assieme ai suoi pochi ma resistenti lettori, la piangono le tradut­trici Isabel Quigley (in­glese), Georges Piroué (francese), Marta Ber­telli (francese), Febo Delfi (greco), Nanny Nilsson (svedese), Jaime Berenguer Amenos (spagnolo), Jorge de Se­na (portoghese), Issa Naouri (arabo).   «Loro testimoniano quanto Elena sia forse stata più apprezzata al­l’estero che non in Ita­lia», spiega Stefania Ven­turino, amica e sodale della Bono, con cui col­labora fin dal 1990 per la riscoperta e la valo­rizzazione della sua o­pera letteraria (vedi il si­to da lei realizzato: www.elenabono.it). Un vuoto da colmare crea­to dalla critica irregi­mentata degli anni ’50 che nella Bono, come ha sottolineato il critico Giovanni Casoli, vide u­na «ex lege, fuori dal­l’industria culturale».La Garzanti all’epoca, nonostante le buone re­censioni di Morte d’A­damo preferì puntare tutto su Pier Paolo Pa­solini, il quale quando lesse il testo teatrale La testa del Profeta (pub­blicato nel 1965): anche lui, come Visconti, vole­va portarlo sul grande schermo. Ma la Bono, fiera, sia pur con rispetto, rispose negativamente: «Mi pare che ognuno debba andare, quindi ognuno vada per la sua strada...».Non era rancorosa, ma ferma e coeren­te con le sue idee, sorretta fino all’ulti­mo soffio di vita da una fede profonda. Una spiritualità vissuta a pieno da ter­ziaria francescana che gli faceva dire: «Senza l’esperienza religiosa, l’uomo è u­na bestia, allora tanto vale non essere mai nati». Era nata per incantare e par­lare con gli angeli, e invece gli è toccato un destino dolceamaro come questo ri­cordo, di donna che ha dovuto combat­tere tra pene e oblio per non diventare un’ombra agli occhi della pubblica ot­tusità.Per il suo contributo letterario e per a­ver combattuto contro tutte le banalità del male del secolo scorso, anche per il vescovo di Reggio Emilia Massimo Ca­misasca merita il giusto, anche se tardi­vo, riconoscimento: «Sappiamo che su­bito, la sua morte ci invita a riprendere in mano le sue pagine, dove non ci so­no parole di troppo e dove è raccolto tut­to il viaggio esaltante dell’uomo e il suo dialogo drammatico con il Mistero».