Agorà

In scena. A teatro i sogni infranti del pallone

Massimiliano Castellani martedì 28 aprile 2015
Tra le tante frasi ad effetto di José Mourinho, forse la più “speciale” pronunciata dallo “Special One” è: «Nel calcio non ci sono superuomini, ci sono solo uomini che hanno vinto piú spesso degli altri». Giuseppe Scordio e Gianfelice Facchetti in Mi voleva la Juve (da domani a Milano in cartellone per due settimane al Teatro Spazio Tertulliano) condensano in un’unica trama tante storie simili di certi giocatori che non hanno vinto mai. È un’autentica sfida, quella che l’attore Scordio e il regista Facchetti – figlio di Giacinto, il campione degli anni ’60-’70 – hanno intrapreso assieme per raccontare una vicenda, umana e sportiva, tanto forte quanto vera.«Grazie al testo e la regia di Gianfelice Facchetti, portiamo in scena una parte importante, e dolorosa, della mia vita», attacca Giuseppe Scordio, 45 anni, attore e direttore artistico dello Spazio Tertulliano, che prima di calcare le tavole del palcoscenico aveva solcato le aree di rigore. «Ho cominciato nel campetto dell’oratorio, nella “Rossa” di via Neera, alla Stadera, quartiere popolare di Milano sud. Primi anni ’80, non c’era ancora la pay-tv e alla domenica mattina al nostro oratorio venivano anche duemila persone». Giuseppe giocava centravanti: «Mi ispiravo a Boninsegna quando sono passato alla “Scuola Oriali” dell’Inter e poi al Lorenteggio. Ero il capitano in una squadra in cui avevo come compagni Pasquale Rocco e Paolo Tramezzani. Loro poi nell’Inter sono arrivati in prima squadra, io mi sono fermato a un provino». Quando il quindicenne Scordio realizzò quaranta gol in una stagione lo convocarono a Torino: lo voleva sul serio la Juve. «Lo spettacolo è incentrato su questo momento, sulla grande illusione toccata in sorte a tanti ragazzi e poi il triste risveglio nella quotidianità di un adolescente», spiega il regista Facchetti. Giuseppe in quel “teatro dei sogni” della Juventus ci arrivò con la fame di chi è nato e cresciuto ai bordi di periferia, in un monolocale da dividere con i genitori e sette fratelli. «Noi famiglie di emigranti meridionali eravamo un po’ come gli extracomunitari di adesso. Quando scendevo in campo volevo essere il numero uno. E anche a scuola mi impegnavo per figurare tra i migliori, era l’unico modo per guadagnarmi il rispetto e per ridarne un po’ indietro anche alla mia famiglia». Sul campo della “Vecchia Signora” si era fatto onore nei due provini che aveva sostenuto. «Nella prima partita – continua Scordio – battemmo gli allievi della Juventus. Segnai due gol e impressionai il mister, Cestmír Vycpálek. Al triplice fischio mi trattenne per testarmi su palleggio, stop e tiro. Alla fine Vycpálek mi disse soddisfatto: “Ci vediamo a settembre, ragazzo”. Non l’ho più rivisto». Il sogno sfumò in fretta: «Tempo dopo, seppi che mi voleva anche il Pavia che offriva venti milioni di lire per il mio cartellino. La Juve si spazientì e si ritirò dalla trattativa, così io rimasi al palo: è stato un trauma, stanco e deluso dissi basta». La sua sconfitta, a rileggerla adesso che è diventato uomo, è stata la metafora di una generazione segnata dall’eroina: «La perdita più atroce – come raccontiamo in Mi voleva la Juve – fu la morte di mio fratello Giuliano. Giocava anche lui, centrocampista, era bravo. Se l’è portato via il male di vivere: a diciott’anni entrò in carcere, a venti ne uscì, ma dopo qualche mese se n’è andato per sempre». Era il 29 settembre del 1994, una data che è una cicatrice aperta nell’anima dell’attore che, dal palco, dà voce a un dolore esistenziale. «Ma lo sport è, ieri come oggi, un deterrente contro il vuoto che troppo spesso porta i ragazzi a chiudersi in se stessi, a fare scelte sbagliate e, se magari non si ha una famiglia alle spalle, a perdersi».Nella “Rossa” c’era anche il pugile Giacobbe Fragomeni, campione europeo dei massimi, che ha avuto problemi con la droga: «Ma poi la boxe lo ha riportato sulla retta via. A me – ricorda Scordio – un suo pugno ha fatto abbandonare subito il ring per abbracciare un altro sogno, il teatro». Un cammino di avvicinamento cominciato con il cinema ne Il giovane Mussolini di Gianluigi Calderone: «Un provino andato bene: nel film avevo appena cinque battute, però è stato in quel set che mi hanno detto: “Il tuo mestiere è recitare”. Debutta in teatro in Un amore di Dino Buzzati nella compagnia di Giulio Bosetti, «il maestro che ho seguito fino alla morte. Sono stati tredici anni di grandi tournée, dall’Antigone al Berretto a sonagli. Con Bosetti condividevo anche la passione per il calcio: l’unica volta che entrò in scena in ritardo – sorride divertito Scordio – è stato quando un pomeriggio rimase in camerino ad ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto per la radiocronaca della sua Atalanta».Gianfelice Facchetti con l’Atalanta ha giocato, portiere degli allievi allenati da Cesare Prandelli, poi la folgorazione per il teatro. Non è la prima volta che porta in scena il calcio, che per lui è quello poetico di Pasolini. Calcio e teatro civile che si fondono, quando servono a raccontare la tragedia della Shoah come ha fatto in Bundesliga 44. In Mi voleva la Juve, tra una rovesciata di Boninsegna, un assist rock dei Led Zeppelin e un’esultanza “artistica” come l’urlo mundial di Tardelli, ci si ricorda di tutte quelle leve calcistiche che hanno messo il cuore dentro le scarpe. Qualcuno ce l’ha fatta, tanti sono scivolati, altri ancora a volte piangono di nascosto, ma poi con gli ex compagni di un tempo ridono e se la contano dentro a un bar. Ma il pensiero di Scordio e Facchetti va a tutti nella Preghiera finale per i calciatori (tratta dal romanzo La partita di Stefano Ferrio): «Nel nome degli infiniti e oscuri portieri che pregano. Terzini che picchiano, mediani che sanguinano, laterali che inciampano, centrocampisti che annaspano e attaccanti che non sanno mai come diavolo girarsi verso quella stramaledetta porta. I nostri compagni, nella vita. Quelli a cui si deve la misteriosa, stupenda e democratica bellezza del calcio».