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La mostra. A Città di Castello le prove generali del giovane Raffaello

Giancarlo Papi sabato 4 dicembre 2021

Uno scorcio della mostra sul giovane Raffaello a Città di Castello

Secondo il Vasari, Raffaello avrebbe intrapreso il cammino della pittura a fianco del padre Giovanni Santi, artista e letterato di buon livello, il quale, accortosi del precoce, straordinario talento del figlio, comprese ben presto che «appresso di sé poco poteva acquistare». Allora, quando è ancora un bambino di dieci anni, lo affida a un maestro di prestigio come il Perugino, pittore molto apprezzato in tutta Italia, che lo ospita nella sua bottega a Perugia. Qui apprende prima di tutto le complesse tecniche pittoriche del tardo Quattrocento, dalla preparazione dei colori e della tavola all’uso dell’olio come legante, derivato dalla pittura fiamminga, che consente nuovi effetti di trasparenza. Contemporaneamente si esercita nel disegno che costituisce per lui il mezzo di espressione più naturale.

Attraverso questo lento e paziente lavoro, Raffaello assimila la grazia del Perugino, la sua capacità di esprimere i sentimenti, e insieme il gusto decorativo del suo compagno di bottega, il Pinturicchio. All’inizio del 1500 Raffaello lascia il Perugino; ha solo diciassette anni ma ha già ottenuto il titolo di “magister” che gli permette, secondo il regolamento della Corporazione dei pittori, di esercitare la propria attività che prende avvio a Città di Castello, dove giunge nel mese di dicembre.

Parte da qui, per focalizzarsi fino al 1504, anno in cui il maestro abbandonerà il centro tifernate per intraprendere le nuove sfide di Firenze e di Roma, la mostra "Raffaello giovane a Città di Castello e il suo sguardo" allestita fino al 9 gennaio alla Pinacoteca comunale a cura di Marica Mercalli e Laura Teza. La mostra, che innanzitutto documenta quale sia stata l’eredità artistica del padre Giovanni, vale a dire una razionale distribuzione delle figure che emergono con nettezza di contorni sullo sfondo di paesaggi tersi, cui gamme accese di colori conferiscono rilievo, si sofferma poi sull’opera frutto del primo contratto di lavoro.

È quello stipulato con Andrea Baronci per la realizzazione nella chiesa di Sant’Agostino dell’Incoronazione di san Nicola da Tolentino, una tavola di cui vengono presentati per la prima volta insieme i tre frammenti superstiti in seguito al terremoto del 1789: l’Eterno e la Vergine, restaurati per l’occasione, provenienti dal Museo Nazionale di Capodimonte e la testa di Angelo conservata nella Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia.

Nei tre frammenti, che sono tutto quanto oggi resta del grande dipinto di quasi quattro metri di altezza e che tuttavia consentono di avere un’idea precisa dell’alto livello raggiunto dal giovanissimo pittore, si nota una caratteristica che resterà immutata per tutta la sua carriera: una perentoria, assoluta perfezione formale del disegno sia quando raffigura soggetti atteggiati alla calma e alla serenità, sia quando il tema impone uno scorrere più concitato della grafia. Basta mettere a confronto, in proposito, l’Angelo della pala del san Nicola da Tolentino e il San Michele che sconfigge il demonio del Louvre. Il primo è dipinto con una fluidità di profili che s’intona alla dolcezza dei tratti del volto dell’angelo, l’altro si torce su se stesso con un guizzo rotatorio e fiammeggiante che contribuisce ad aumentare visivamente le reali dimensioni della tavoletta.

Il cuore dell’esposizione è rappresentato dal Gonfalone della Santissima Trinità, proveniente da un recente e importante restauro, collocato accanto al Martirio di San Sebastiano di Luca Signorelli, uno degli artisti più studiati da Raffaello negli anni della sua giovinezza. Il Gonfalone, dipinto su entrambi i lati per essere portato in processione, testimonia della precocissima maturità dell’artista. Soprattutto la parte dedicata alla Creazione di Eva stupisce per la forza naturalistica e l’invenzione iconografica, tanto che non si può escludere che le cognizioni del giovane Raffaello siano andate oltre la frequentazione della bottega del Perugino per, da un lato, riprendere la simmetria del Pollaiolo e, dall’altro, la quiete e la serenità del paesaggio riconducibile alle esperienze venete di un Giovanni Bellini.

Nel 1504 il pittore firma e data lo Sposalizio della Vergine, il capolavoro che conclude il periodo umbro (completato dalla Crocifissione Mond, forse l’unica opera in cui compaiono colori di una certa cupezza). L’opera è basata su una tavola del Perugino, ma il modo in cui Raffaello ripropone il modello fa comprendere che ormai lo stile del maestro è superato. Del dipinto, in cui la distribuzione delle figure dell’architettura non è casuale, anzi obbedisce a precisi rapporti armonici e ritmici che collegano le varie parti tra loro, l’esposizione presenta l’unico disegno preparatorio a tutt’oggi noto, ora all’Ashmolean Museum di Oxford, accompagnato da alcune antiche copie dell’opera