Agorà

Tor Vergata. A Verdone il dottorato honoris causa: «Il cinema sarà multietnico»

Eusebio Ciccotti giovedì 23 novembre 2017

Carlo Verdone riceve il Dottorato all'Università di Tor Vergata a Roma

«Non c’era miglior data per ricevere questo Dottorato (pausa). Cento anni fa nasceva mio padre Mario. Spero di meritarmelo. Debbo tutto alla mia famiglia e a Roma. Mia madre, Rossana, mi portava a seguire l’opera lirica; mio padre mi ha trasmesso l’amore per la letteratura, l’arte e il cinema. (Pausa) Debbo il mio cinema soprattutto a Roma. Una città osservata con sguardo poetico e ironico». Con questo incipit Carlo Verdone incanta i circa mille convenuti nella sala Ennio Morricone della Università Tor Vergata, per ricevere il Dottorato in “Beni culturali e del territorio”. I giovani e meno giovani fissano il loro beniamino seduto sul palco con tanto di mantella e squadrato berretto accademico con fiocco. Poco prima il Magnifico Rettore, Giuseppe Novelli, aveva letto una breve ma attenta prolusione introduttiva ringraziando il neo Dottore di Ricerca per aver raccontato sapientemente la contemporaneità. Successivamente, il professore Giovanni Spagnoletti, partendo dal concetto di umorismo secondo Henri Bergson e passando per la commedia all’italiana, che «sicuramente lo ha ispirato», notava la particolarità del cinema verdoniano: una commedia, a volte amara, di «forte impatto antropologico, un cinema che studia le incertezze e le nevrosi contemporanee».

Carlo Verdone non legge. Non ha preparato nessun testo. Va a braccio. Poco prima di entrare nella sala Morricone, nella adiacente saletta dove si sta preparando, confida a chi scrive, «oggi sono veramente emozionato, sono teso, qui c’è un pubblico esigente, che conosce e ama il cinema; spero di non deluderli». Inizia a raccontare intrecciando fatti privati e vita lavorativa. «Mia madre mi diede un calcio nel sedere, mi chiuse fuori dalla porta di casa, e mi costrinse a recarmi ad esordire al teatro Alberichino: io volevo mettermi malato, avevo paura del palcoscenico. Debbo a quel calcio la mia carriera». Ricorda Sergio Leone, gli sceneggiatori De Bernardi e Benvenuti, e tanti altri artisti. Torna a ringraziare Roma. «Dalla terrazza di casa mia vedevo una città poetica. Poi, Ponte Sisto, davanti al mio palazzo era un luogo curioso negli anni Settanta: diversi si andavano a suicidare gettandosi nel fiume. Per carità, ho sempre rispettato il dramma di quelle famiglie, ma mi colpiva la curiosità dei capannelli sul ponte subito dopo la tragedia. Arrivava il primo ben informato, “s è ammazzata una contessa!”; un secondo, subito correggeva, “ma che stai a ddì, so’ ddu sorelle”; immancabile il terzo, “ma ssi era ‘n cinese!”. Interveniva un quarto, “Ma che stai a ddì: i cinesi mica stanno a Roma, stanno ’n Cina!”. Il pubblico ride. Tutti abbiamo visto la scena su Ponte Sisto. Carlo è un gran raccontatore. Prima di chiudere ricorda gli ultimi caratteristi romani del cinema, ormai scomparsi: Lella Fabrizi, Mario Brega e Angelo Infanti. «I caratteristi di domani saranno romeni, africani, del Bangladesh. Siamo una società multietnica. È giusto che sia così».

Il lungo applauso finale e le grida «Carlo sei grande!», oltre a sancire circa due ore del racconto di una vita dedicata al cinema, tra la gioia della sua famiglia e del produttore Aurelio De Laurentiis, gongolante in prima fila, ci conferma – casomai ce ne fosse bisogno - che il cinema di Carlo Verdone è trans generazionale, lega un pubblico attraverso 40 anni.