venerdì 10 maggio 2024
Pechino è accusata di «attività di disinformazione». La replica: si tratta di una provocazione. Sullo sfondo ci sono le tensioni per il Mar Cinese meridionale
Lo scontro tra navi filippine e cinesi nel Mar Cinese meridionale lo scorso aprile

Lo scontro tra navi filippine e cinesi nel Mar Cinese meridionale lo scorso aprile - ANSA

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Anche i filippini a volte perdono la pazienza. E se il loro non è proprio il “ruggito del topo”, la nuova iniziativa di autotutela verso l’aggressività cinese non passerò inosservata anche se probabilmente mancherà di arrestare le pretese cinesi sulle acque di casa.
Il Consiglio per la sicurezza filippino ha chiesto oggi l’espulsione di diplomatici dell’ambasciata della Repubblica popolare come ritorsione per “attività di disinformazione”, probabilmente anche per mezzo di intercettazioni telefoniche, che non soltanto rappresenterebbero un rischio per la sicurezza nazionale ma sono anche illegali secondo la legge filippina. Gli “atti ripetuti di elaborazione e distribuzione di disinformazione, cattiva informazione e informazione maligna” con l’obiettivo “di seminare discordia, divisione e disunità” che hanno al centro un colloquio fra personale dell’ambasciata e un ammiraglio filippino, non potevano passare sotto silenzio. A chiederlo anche una opinione pubblica passata dall’accettazione per le politiche della “mano tesa” del precedente presidente Rodrigo Duterte che non avevano contribuito a deviare la determinazione di Pechino di fare del Mar Cinese meridionale una parte integrante della propria area di influenza, alla rinnovata accoglienza della tutela americana.
Per la parte cinese la mossa di Manila sarebbe “provocatoria” e mirata a inquinare “fatti che sono chiari e confermati da prove certe e inequivocabili”, ma va ricordato che segue anni di infrazione del Diritto marittimo e l’annessione di isole o banchi di sabbia prossime o all’interno della Zona di interesse economico filippina trasformati in avamposti della presenza cinese in barba al parere della Corte permanente di arbitrato sulla Convenzione sulla Legge del mare che nel luglio 2016 ha negato a Pechino le pretese di sovranità.

Le “prove certe” della malafede filippina sarebbero per Pechino la presenza della carcassa del Sierra Madre, un vascello per il trasporto di mezzi da sbarco prodotto nel 1944 negli Stati Uniti e dal 1999 arenato su banco di sabbia denominato dai filippini Secondo Thomas Shoal, parte delle acque delle Isole Spratly rivendicate dalla Cina. Abitato da un manipolo di militari filippini in un’area che i cinesi hanno unilateralmente annesso a 800 chilometri dalle loro coste, il relitto evidenzierebbe per Pechino una violazione dei propri diritti territoriali e il periglioso rifornimento periodico del manipolo di volenterosi in lotta con il mare e la ruggine riaccende ogni volta tensioni e accuse.
Accuse e pretese che rischiano di trascinare in un conflitto non solo le nazioni affacciate su una vasta area di mare attraversata dalla rotta commerciale più trafficata al mondo, vitale per economie di alto livello come quella cinese, giapponese e sudcoreana ma importante anche per gli interessi americani e il cui accesso alla navigazione secondo le leggi del mare deve essere garantito. Per questo, sempre più navi militari di Paesi anche molto lontani, come Francia, Regno Unito, Germania, Australia, e recentemente anche Giappone, sono presenti nella regione con transiti a volte a ridosso di battelli delle cosiddette “flottiglie patriottiche”, pescherecci che a chiamata a decine si raccolgono per formare un cordone inattaccabile a tutela degli interessi cinesi.

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