giovedì 9 maggio 2024
Parla May Pundak, avvocata nonché figlia del giornalista e storico che ebbe un ruolo importante per la firma nel 1993 degli accordi di Oslo. «Le teorie vanno aggiornate alla luce della realtà»
Civili palestinesi lasciano Rafah

Civili palestinesi lasciano Rafah - Ansa

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Joe Biden l’ha definita «ancora possibile». Per i ministri degli Esteri dell’Ue è «l’unica via». Perfino Xi Jinping, due giorni fa, l’ha caldeggiata. Dopo oltre tre decenni d’oblio, la “soluzione dei due Stati” è tornata ad imporsi nel dibattito internazionale. È diventata quasi un mantra che le cancellerie ripetono di fronte al prolungarsi del conflitto a Gaza. «Pochi, però, spiegano che cosa significhi nel contesto attuale. In questo modo, i due Stati diventano un mero slogan da sbandierare alla prima occasione non un progetto da realizzare». Proprio il contrario di quanto si propone May Pundak, avvocata, femminista e attivista per la pace nonché figlia di Ron Pundak, architetto israeliano degli Accordi di Oslo, primo passo per la costituzione dei due Stati. «La comunità internazionale si interroga su come rilanciare questa idea. Non credo sia utile. Non si tratta di rilanciarla ma di aggiornarla rispetto alla realtà», spiega, seduta a un tavolo della Casa Hansen di Gerusalemme, ex lazzaretto trasformato in centro culturale e luogo di ritrovo di giovani artisti e intellettuali. Con questa convinzione è diventata direttrice esecutiva di “A land for all”, movimento, nato nel 2020, da israeliani e palestinesi determinati a costruire un presente e un futuro condivisi.

Come aggiornare la visione?

Non possiamo più parlare semplicemente di “due Stati” ma di “due Stati in una patria comune”. Gli Accordi di Oslo non hanno funzionato perché erano basati sul principio di separazione: “noi” da una parte, “loro” dall’altra. E, nel mezzo, possibilmente, un muro molto alto. La realtà va, però, in direzione opposta: israeliani e palestinesi sono sempre più interdipendenti. E mescolati. Il 20 per cento della popolazione di Israele è di origine palestinese mentre nei Territori ci sono oltre 700mila israeliani. Non possiamo “forzare” la realtà a seconda delle nostre idee. Dobbiamo, al contrario, ascoltarla, analizzarla, comprenderla e agire di conseguenza.

In quale modo?

Promuovendo un modello che preveda due Stati separati con, però, istituzioni congiunte su alcune questioni comuni, come la gestione delle risorse idriche, il commercio, l’ambiente e la sicurezza. Il riferimento è l’Unione Europea.

Qualcuno direbbe che il Medio Oriente non è l’Europa…

Questo qualcuno dimentica i secoli di conflitti che hanno dilaniato il Vecchio Continente fino ad arrivare alle due guerre mondiali del secolo scorso. È stata la creazione di un progetto comune a mettere fine allo stillicidio non il contrario. Può accadere anche qui. È questione di avere immaginazione politica per generare una speranza che inneschi il cambiamento. È quanto cerchiamo di fare lavorando insieme, israeliani e palestinesi, su più livelli. Realizziamo progetti locali sul terreno, cerchiamo di portare le nostre idee all’interno delle istituzioni e nel dibattito culturale e le diffondiamo in ambito internazionale.

Come creare, in concreto, “due Stati in una patria comune”?

A partire da alcune linee guida da applicare con gradualità. I due Stati, disegnati sui confini precedenti all’occupazione del 1967, devono garantita, innanzitutto, libertà di circolazione e residenza. Questo consentirebbe di risolvere la questioni cruciale del “diritto al ritorno”, invocato dai palestinesi, garantendo la cosiddetta “maggioranza ebraica”, sostenuta dagli israeliani, perché non si tratterebbe di cittadinanza. Tanti palestinesi potrebbero tornare nelle terre perdute come residenti permanenti. Al contempo, i coloni ebrei potrebbero restare in una Palestina indipendente, accettandone le leggi e senza un sistema che ne garantisca la supremazia. Si tratta di “decolonizzare” gli insediamenti. Una pace sostenibile, inoltre, richiede l’avvio di un processo di riconciliazione. Non si tratta di un’utopia. È accaduto in Irlanda del Nord, in Sudafrica e ora in Colombia. Il punto è cominciare, infondendo speranza. Qualunque processo di pace comincia come idea di nicchia che poi si diffonde e contagia la maggioranza. Noi siamo già tanti. E dall’inizio della guerra ancora di più: migliaia soprattutto di giovani si sono avvicinati a “A land for all” negli ultimi mesi perché si sono resi conto che il conflitto non porta a niente. É stato troppo a lungo l’unico orizzonte. È tempo di cambiare.

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