mercoledì 15 maggio 2024
Sit-in e accampamenti da Milano a Roma. I gruppi studenteschi chiedono di interrompere le relazioni con gli atenei di Tel Aviv. Gli accademici: no ad estremismi, la ricerca resti zona franca
Mani rosso sangue: così alla Sapienza di Roma si sono presentati gli studenti dei collettivi pro-Gaza

Mani rosso sangue: così alla Sapienza di Roma si sono presentati gli studenti dei collettivi pro-Gaza - Ansa

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Più tende, più pressione mediatica, più preoccupazione. Dopo i timori espressi due giorni fa dal Viminale, che vuole «impedire che soggetti estranei al mondo universitario possano infiltrarsi nelle manifestazioni», ieri è toccato ai collettivi degli studenti tornare a mobilitarsi, in vista della giornata di oggi, a ricordo della cosiddetta Nakba, l’esodo forzato di 700mila arabi palestinesi dai territori occupati da Israele.

Perché è sempre sul boicottaggio degli accordi tra i nostri atenei e quelli israeliani, che punta la minoranza rumorosa dei giovani. A Milano, dopo Statale e Politecnico, anche alla Bicocca è iniziata la cosiddetta "acampada". Alla Sapienza di Roma gli studenti si sono dipinti le mani di rosso in gesto di solidarietà con Gaza, lanciando accuse ai vertici dell’ateneo. Nelle altre città, da Trento a Bologna, da Napoli a Palermo, fino a Torino, Pisa, Venezia e Bergamo ci si è limitati a realizzare altre tendopoli, anche se i numeri delle mobilitazioni da parte dei ragazzi restano molto bassi.

Se il mondo delle università resta sostanzialmente indifferente alle proteste dei collettivi pro-Gaza, allora perché se ne parla in modo così diffuso? La domanda è legittima, vedendo la copertura garantita soprattutto da televisioni e Internet. Raccontata dai professori che vivono la quotidianità degli atenei, in realtà, la vicenda desta assai meno stupore. Ci sono già state altre stagioni in cui le rivendicazioni del mondo studentesco hanno assunto tratti provocatori e inediti e non è neppure la prima volta che si assiste a una saldatura tra le petizioni antisioniste di una parte del corpo docente affinché si interrompano le relazioni con Tel Aviv e frange estremiste dei collettivi.

Forse la differenza rispetto al passato sta soprattutto in un passaggio, spiega chi sta seguendo la protesta dentro gli atenei interessati: «Questa volta c’è un’incapacità preoccupante nel recidere i legami con gruppi terroristici come Hamas, considerati protagonisti della “resistenza palestinese”, e c’è un’internazionale del dissenso universitaria che raramente si era vista prima». Non fa nulla se alla Columbia University le proteste vengono soffocate con modi discutibili dalla polizia e da noi si attua invece, salvo eccezioni, la strategia del “contenimento pacifico”.

Come spiega un accademico che ha vissuto molto da vicino il presidio di Bologna, «se molti miei colleghi hanno preferito inabissarsi nelle ultime settimane, dopo aver moltiplicato all’inizio appelli e proteste contro Israele, questo avviene perché l’università non può seguire i tempi della politica, anzi. Non c’è nessun ricercatore o docente che può giustificare l’interruzione dei rapporti tra atenei, che resta una zona franca per tutti noi». Tenere intelligenze e coscienze al riparo, dunque, da bufere mediatiche e tentazioni complottistiche sembra essere la priorità. Anche perché, si aggiunge nei corridoi di ateneo, «se dovessimo dare una patente di democrazia a tanti Paesi con cui collaboriamo, a quel punto dovremmo tagliare i ponti con tanti, dalla Cina ai Paesi arabi».

Aiuti alla popolazione della Striscia, intensificazione della collaborazione con gli atenei palestinesi e accoglienza di ricercatori delle stesse università. È questa la linea proposta dal rettore della Statale di Milano, Elio Franzini, durante la discussione al Senato accademico, che ha ribadito la contrarietà allo stop nei rapporti didattici e scientifici con Tel Aviv.

Nelle stesse ore, il Senato accademico dell'Università di Padova ha approvato all'unanimità una mozione in cui esprime «sconcerto e profonda preoccupazione per l’ulteriore drammatico evolversi del conflitto» a Gaza, «condotto con ingiustificabile accanimento dall’esercito israeliano». Il testo impegna poi l’ateneo a «destinare risorse per borse di studio finalizzate all'accoglienza di docenti, studenti e studentesse delle Università palestinesi distrutte a causa del conflitto».

L’Università di Pisa, invece, ha manifestato «preoccupazione per la tragica evoluzione della situazione a Rafah e in generale nella Striscia». L’ateneo toscano ha diffuso il testo mentre era in corso la protesta degli studenti per Gaza.

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