Se Israele oscura la tragedia
martedì 7 maggio 2024

L’oscuramento del network televisivo Al Jazeera in Israele e l’avvio delle operazioni militari su Rafah – che secondo le agenzie umanitarie sarebbe una catastrofe peggiore di quanto già visto in 214 giorni di guerra – è solo una coincidenza? Dopo più di cento cronisti uccisi nella Striscia di Gaza (in maggioranza palestinesi del posto, travolti dai bombardamenti o deliberatamente eliminati), attraverso quali occhi si guarderà a questa tragedia?
Il “no” al network panarabo, infatti, non offre come contraltare il via libera alla stampa internazionale, tenuta ancora fuori dalle mura di Gaza. Nelle settimane scorse più volte testate di tutto il mondo, Avvenire tra queste, hanno domandato di poter entrare e lavorare nella Striscia. Anche a costo di assumersi ogni rischio, sollevando le autorità israeliane da eventuali responsabilità per “incidenti” non deliberati contro i giornalisti. Nessuna risposta.
Il diktat del governo Netanyahu ordina che il canale tv e la piattaforma online di Al Jazeera non siano più raggiungibili in Israele. Gli uffici saranno chiusi e le attrezzature confiscate, ad eccezione di telefoni e computer. Ogni 45 giorni verrà esaminata la proroga del provvedimento. Non è però ancora chiaro cosa faranno i soldati israeliani quando in Cisgiordania e a Gaza si troveranno di fronte a una troupe del network panarabo.
Dovunque, il pretesto per oscurare una voce è l’accusa di mancata neutralità. Come se il giornalista debba essere un testimone inanimato di quanto gli accade intorno, lungo l’invisibile confine tra obiettività e asservimento. Orban e Netanyahu, l’ayatollah iraniano Khamenei e i comandanti talebani in Afghanistan, per approntare una lista sommaria e incompleta, soffrono lo sguardo ravvicinato dei reporter. Anche in Italia c’è chi di recente è tornato a proporre, a determinate condizioni, la carcerazione per i giornalisti.
Mal comune non è mezzo gaudio, specie se di mezzo c’è il diritto d’essere informati e il dovere di documentare e riferire. Nei palazzi del potere a Tel Aviv dicono che l’emittente qatariota faccia il gioco del nemico. Prima era toccato alle agenzie Onu, poi alle organizzazioni umanitarie, infine ai volontari di “World Central Kitchen” inseguiti e uccisi dai droni, per non dire dei bombardamenti sulla parrocchia di Gaza. Mai un’assunzione di responsabilità: «incidenti» o al più «danni collaterali».
Sia chiaro, neanche in Cisgiordania si può lavorare a cuor leggero. Ci sono fortini delle organizzazioni islamiste letteralmente inaccessibili. E in alcune giornate ai cronisti può capitare di finire contemporaneamente sotto gli attacchi dei coloni israeliani e, nella migliore delle ipotesi, allontanati con le cattive maniere dagli affiliati alle sigle estremiste.
Quello del corrispondente dalle zone di crisi non è solo un mestiere pericoloso. È scomodo. Da Gaza ai territori ucraini occupati dalle forze russe, dal Mediterraneo alla rotta balcanica dei profughi, da Kabul a Teheran, da Tripoli a Kinshasa, i giornalisti sono testimoni che è meglio non avere tra i piedi. Il caso “Al Jazeera” in Israele è l’ultimo di una serie. Emblematico di quello che non solo le dittature, ma le democrazie possono fare per non avere troppi occhi puntati addosso.
L’articolo 79 del protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra sui Diritti dell’Uomo è tra quelli fatti a brandelli. Si intitola: “Misure di protezione dei giornalisti”. E vale la pena ricordarne qualche riga, per rammentare con quale spirito la Convenzione nata nel 1949 e aggiornata nel ’77, dopo gli anni del Vietnam, delle guerre africane e delle giunte militari in Sudamerica, si accostava all’informazione. «I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone di conflitto armato - si legge - saranno considerati come persone civili». Né nemici, né alleati. Conseguenza: «Saranno protetti in quanto tali».
Il compianto Ettore Mo, dalle colonne del Corriere della Sera testimone e maestro di tante cronache dal fronte, diceva che alla lunga «la gente capisce se tu ci sei lì o non ci sei». E allora «adagio adagio – avvertiva – il nostro giornalismo si svilisce». Questo sì è un “danno collaterale” che colpisce anche a migliaia di chilometri dai fronti delle guerre.

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