Noi, sull’orlo dell’abisso, con ostinata voglia di vivere
domenica 28 aprile 2024

D’ora in poi la domenica, su questa pagina, vi scrivo una lettera. Vi racconto qualcosa. Cose viste, o pensieri, come li direi a un amico. Da Israele all’Ucraina in questi giorni, se guardi, se leggi, è un ininterrotto dolore; e anche una paura, che non si osa dire. Una volta mi domandavo come vivevano i miei genitori nel ’39, ragazzi, alla vigilia del disastro. Nelle foto in bianco e nero andavano in gita in montagna, o studiavano, come non stesse accadendo niente. Non me ne capacitavo. Ora capisco: quando una minaccia è così potente che non ci puoi fare nulla, in qualche modo ti adegui e vivi, vivi normalmente. Ti resta in testa da un tg, vagamente, la consapevolezza degli armamenti già pronti, a Kaliningrad o in Iran. Già sulle rampe di lancio: e sai anche quale potenza di gittata hanno. Minacce poi, ogni giorno: ministri, portavoce, ayatollah. Infine ti ci abitui. Cerchi di convincerti che gridano, ma non dicono per davvero. E fai la spesa, porti i bambini all’asilo, lavori. Dev’essere un meccanismo di difesa, o di sopravvivenza: cerchi di non pensare, e vai avanti.

L’altro giorno un messaggio di Orbán su Telegram diceva che l’Europa era a un passo dall’inviare uomini in Ucraina. Eravamo a tavola. Un figlio: “Ma non vorrai credere a Orbán?” Beh, ho replicato, l’Ungheria è Europa, partecipa ai summit, qualcosa a Budapest sapranno. Ma il figlio già non ascolta, bada al bambino sulle ginocchia. Eppure, penso con una stretta al cuore, quelli della tua età in Ucraina sono al fronte. E anche tu - guardo il fratello, più giovane - anche tu avresti l’età giusta per partire. Via, ribatto subito a me stessa, non diciamo assurdità, non si arriverà mai a questo punto, e in ogni caso partirebbero solo eserciti di professionisti. In ogni caso questa guerra resterà lontana. (Ma chi ce lo ha promesso, chi ce lo ha garantito? Nati dentro a ottant’anni di pace, crediamo che la pace sia ovvia, scontata, per sempre).

A parte che - prosegue un’altra voce in me, in questo dialogo muto - anche senza muovere eserciti, di certi ordigni ne basterebbero pochi. Taccio però, e sorrido, portando in tavola le fragole col gelato. Prendo in braccio il nipote più piccolo, che subito vuole scendere, ansioso di camminare. Quei primi passi goffi e orgogliosi, quel cadere, quel ridere e rialzarsi, ostinato. Mio Dio, penso, siamo stati così tutti. Tutti: le centinaia di migliaia di ucraini e russi mandati a uccidere e a morire, e i giovani israeliani a Gaza, e gli uomini di Hamas, nella notte del 7 ottobre. I soldati nella polvere e i capi che, da stanze blindate, danno gli ordini. Come sembriamo innocenti tutti, appena venuti al mondo, e di quanto male possiamo diventare capaci. Quando hai in braccio un bambino di un anno stenti a crederci: con quegli occhi, come può essere?

Un nemico, invisibile, nemmeno riconosciuto, ci rode e ci altera. Lo sguardo di vetro di Putin, la faccia di pietra di certi generali col petto carico di medaglie. (E noi stessi, poi, se ci guardiamo bene?) Cosa ci accade, come opera questa metamorfosi? Stasera a tavola ho un poco di paura, ma sto zitta. Come fanno quasi tutti. A che serve parlare? Vivere bisogna, comunque. Vorrei dire, almeno, che occorre drammaticamente pregare. Ma non oso neanche questo. È festa, siamo qui tutti, e tu, mamma, sorridi - togliti quell’ombra dagli occhi.

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