Il messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2002 suscitò un mare di polemiche. A iniziare dal titolo, “Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono”. Nel clima di quel gennaio, con il mondo ancora nel pieno dell'orrore scatenato dall'11 settembre, e l'operazione “Enduring Freedom” lanciata nell'ottobre precedente per schiacciare Al Qaeda e i Talebani, Giovanni Paolo II fu preso per matto, e rimase isolato anche nella Chiesa, e ancora più lo sarebbe stato l'anno successivo, quando partì l'attacco all'Iraq. Come sia andata a finire, e quanta ragione avesse Wojtyla, lo sappiamo tutti. Ma d'altra parte, se quello fu un disastroso abbaglio collettivo, ciascuno di noi è spesso caduto nella trappola del “dovrebbero gettare via la chiave”, “io a quello gli avrei sparato”, “ci vorrebbe la pena di morte”. L'idea di una giustizia meramente punitiva, strumento per vendicare le vittime, è dura a morire. Anzi, si fa ogni giorno più forte. Quello che ieri si riteneva un progresso civile oggi è interpretato come un sintomo di debolezza. E la giustizia “fai da te” non è roba da Far West, ma una via possibile, e salutare. Il paradosso che lo scrittore americano Norman Mailer riassumerva in due domande, “Perché si uccidono le persone che hanno ucciso altre persone? Per dimostrare che le persone non si devono uccidere?”, appare oggi non più tale. E nel vocìo della politica si smarrisce il significato stesso di “giustizia”.
Certo, la tenerezza del padre «è qualcosa di più grande della logica del mondo. È un modo inaspettato di fare giustizia», ha detto Papa Francesco all'udienza generale di dieci giorni fa. Dio infatti, ha spiegato, «non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta». Quello che ci vuole, allora, è una «rivoluzione della tenerezza», senza la quale «rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione. Per questo, oggi voglio ricordare in modo particolare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere. È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore. Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza. Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore».
Tutto questo riassunto nella dolcissima preghiera che, alla fine, ha invitato a rivolgere al «padre nella tenerezza», San Giuseppe: «Insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole. Fa' che non mettiamo nessun impedimento tra la nostra povertà e la grandezza dell'amore di Dio. Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione, per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà. Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo; aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare. E insegna loro che il primo modo di ricominciare è domandare sinceramente perdono, per sentire la carezza del Padre». Sarebbe il caso di impararla a memoria. E non dimenticarla.
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