La lezione di Barthes sull’esposizione “figurativa” di sé
venerdì 5 aprile 2024
Ho riletto La camera chiara di Roland Barthes, testo originale e profondo sulla fotografia. In questi tempi di sovraesposizione “figurativa” di sé stessi, di continua “raffigurazione” della propria realtà (sua versione offerta agli altri attraverso l’uso di foto, video - come che sia: di immagini) è importante tornare alle fonti. Confrontarsi nuovamente con prime riflessioni articolate in merito a quello che ormai diversi decenni fa già si profilava come il pericolo culturale il più facile da correre: la sovraesposizione di sé, appunto. Barthes, che dell’universo della fotografia era innamorato, e che a partire da quell’amore scelse di essere pensatore (acutissimo) sul tema e sulle sue scaturigini, già ne intravedeva i pericoli futuri. L’insidia che inevitabilmente risiede nel condividere in eccesso immagini rappresentative di sé stessi. La minaccia, evidente, è alla vita privata. Una minaccia in merito alla quale, senza mezze misure, l’intellettuale francese scriveva: «La vita “privata” altro non è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere un soggetto». Non risultare “rintracciabili” attraverso le fotografie o altre raffigurazioni iconiche: lì una grande forma di libertà. Sarebbe bello leggere, o ascoltare riformulati oggi ragionamenti di stesso tenore. Tornare a trovare rivendicato il diritto a difendere la propria “privatezza”: dove “privatezza” sta a significare intimità, interiorità non sbandierata, non sovraesposta per via di una condivisione senza criterio di propri album fotografici che dovrebbero, quantomeno in teoria, rimanere del tutto privati. Sarebbe bello di nuovo ragionare sul fatto che la vera politica identitaria, un’autentica riaffermazione del nostro peculiare, individuale essere persone, passa attraverso il saper stare a lato, appartati, non afferrabili: se non invisibili, poco visibili, e visibili solo per quel che concerne i pensieri, le opere, certe azioni, ma non la nostra privatezza. Quella privatezza invece tanto necessaria, che è base e ossatura del nostro adulto stare al mondo. Ancora Barthes: «finisco col ricostruire, attraverso una necessaria resistenza, la separazione del pubblico e del privato: io voglio enunciare l’interiorità senza concedere l’intimità». Concedersi, lì è la questione: non farlo in maniera indiscriminata, perché se qualcosa ha valore, vero valore, è giocoforza necessario debba restare anche celato. Ancora un altissimo pensatore francese d’altra epoca, Michel de Montaigne, scriveva : “Prestarsi agli altri, ma concedersi del tutto solo a sé stessi”. L’utilizzo smodato e dissennato delle proprie fotografie e di ogni forma di ritratto di sé e della propria vita privata, sta a dire quanto quel margine di separazione tra sé e gli altri sia stato smarrito. Sbiadito quel diritto “politico” a rimanere soggetti su cui Barthes, presago delle degenerazioni future, ragionava. In balìa di invadenti sguardi altrui che noi stessi cerchiamo, ci siamo persi di vista. Mentre le nostre persone, in tanto caotico, compulsivo condividere, s’infiacchiscono. © riproduzione riservata
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