Eric, detenuto da 34 anni ora è reporter per gli altri
giovedì 25 aprile 2024
Eric Finley ha 57 anni e dal 1990 vive in una delle otto prigioni federali della Florida. Le ha girate tutte. Prima di essere un detenuto, era un soldato dell’esercito americano e, quando si è tolto la divisa, è diventato un trafficante di droga, soprattutto marijuana, attraverso i confini dei vari Stati - un reato federale gli è costato una condanna a 35 anni. Grazie a un piccolo sconto di pena, presto uscirà dalla cella. Finley non ha una email né un telefono, ma in una lettera mandata attraverso un’associazione non profit racconta che gli ultimi anni sono stati emotivamente i più duri, a causa del misto di speranza e di paura, della tristezza per chi si lascerà alle spalle unita all’incertezza di quello che troverà “là fuori” dove non ha più nessuno. Ma sono stati anche gli anni più sorprendenti perché «non avrei mai pensato di diventare giornalista». Nel 2021, Finley ha seguito un corso per corrispondenza del Prison Journalism Project, creato da due giornaliste, Shaheen Pasha e Yukari Kane, per trasformare alcuni carcerati in reporter credibili e aggiungere le loro storie a quelle che emergono dal mondo delle prigioni americane ma sono scritte solo da persone al suo esterno, con un accesso molto limitato alla realtà della vita carceraria. Finley aveva già taccuini pieni di osservazioni e interviste, e si è buttato con entusiasmo sui plichi di letture ed esercizi che per dieci mesi ha ricevuto ogni quattro settimane, sempre per posta. Poi ha cominciato a pubblicare i suoi articoli sul sito del Pjp: sette o otto volte l’anno. Ha raccontato la perdita di umanità dietro le sbarre, la solitudine e il dolore di non sapere dove sia suo figlio, che non vede dal giorno del suo arresto, quando il bimbo aveva tre anni. Ma ha anche dato voce ai suoi nuovi compagni di viaggio, denunciando l’inutile crudeltà di tenere dietro le sbarre ultresettantenni ammalati o disabili che in prigione non ricevono le cure di cui hanno bisogno e dipendono dalla gentilezza dei loro vicini di cella per lavarsi o mangiare, mentre la loro probabilità di recidiva è praticamente zero.
«In Eric e in molti altri vediamo come la capacità di raccontare le esperienze dal carcere ha già abbattuto alcuni dei muri che erano stati costruiti intorno a loro — spiega Pasha di Pjp —. E la consapevolezza di far parte di una comunità di giornalisti carcerari ha dato loro un’identità che va ben oltre i crimini che li hanno definiti». Negli Stati Uniti, vive circa il 5% della popolazione mondiale e un quarto dei carcerati globali: 2,3 milioni di persone invisibili che formano un Paese nel Paese dal quale trapela poco o niente. Finley ha capito rapidamente l’importanza di far arrivare su Internet i problemi e le ingiustizie del suo universo: «Qui ognuno ha una storia da raccontare e sono tutte fondamentali per capire e magari cambiare il sistema criminale», spiega. Poi descrive un momento di gratitudine per la sua abilità di mettere una parola dietro l’altra per iscritto. «Lo scorso anno un uomo che conoscevo a malapena mi si è avvicinato. Antonio aveva più o meno la mia età, era rimasto disabile a causa di una ferita da arma da fuoco. In mensa, l’ho visto spingere il suo deambulatore verso di me. Ha notato che passo la maggior parte del mio tempo a scrivere, poi ha ammesso che lui non riesce a scrivere bene perché gli tremano troppo le mani. Mi ha raccontato che la morte di sua moglie l’ha lasciato con due figli piccoli e che, un anno dopo, è stato arrestato e condannato a otto anni. I bambini sono finiti nel sistema dell’affido. Dopo un anno di battaglia legale, aveva appena ottenuto il diritto di corrispondere con loro. Antonio ha condiviso con me tutte queste confidenze, poi coraggiosamente mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Potresti aiutarmi a scrivere ai miei figli?”. Così, insieme, abbiamo preparato una lettera. Con l'aiuto di un'organizzazione luterana, è stata recapitata, e i bambini hanno risposto. Antonio era al settimo cielo. La sua gioia mi ha dato speranza che, quando uscirò di qui, forse potrò ritrovare mio figlio e dargli tutte le lettere che ho già scritto per lui». © riproduzione riservata
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