Milano, 1985 – Sera di luglio, un'afa irrespirabile sul Naviglio Grande. È domenica, le strade deserte. Sto uscendo da un portone dopo un'intervista. Proprio qui si ferma un'ambulanza, a sirene spente. I lettighieri ne scendono con una lentezza che mi sorprende. Sulla barella giace una donna anziana, mortalmente pallida, gli occhi chiusi. Subito le è accanto il marito: «Cara, siamo a casa». La malata è terrea e immobile. Incrocio lo sguardo di un lettighiere: è già morta, forse lo era già negli ultimi istanti in ospedale, quando, per contentare il marito, l'hanno rimandata a casa. Ma lui non vuole capire. Continua a parlarle, le dice che ha fatto la spesa, che in frigo c'è qualcosa da mangiare.I giovani lettighieri e io assistiamo ammutoliti a questo addio fra vecchi sposi. Il marito inizia a parlarmi, come lieto di potere per un istante violare la sua murata solitudine. Non so perché, ma mi immagino la loro casa come se la vedessi: piccola, in ordine, con un moscone rimasto prigioniero che sbatte contro un vetro, e nessun altro rumore. E fuori il sole rosso fuoco che va calando, in fondo al Naviglio. Io, che non credo in Dio, vorrei che Dio esistesse, e stasera venisse nella casa di questi vecchi sposi. (E forse, è già una inconsapevole preghiera).
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