Rimini, anni 90. Don Oreste Benzi è seduto alla sua scrivania. Davanti a lui, appena appoggiata sul bordo della sedia, una giovanissima nigeriana, esile, nervosa. Una gazzella inseguita. Io, in un angolo, aspetto di intervistare don Benzi. Non sento le parole del dialogo. Ma guardo quei due, così diversi: il vecchio grosso prete in tonaca nera, e quella fanciulla rubata all'Africa, gettata su un marciapiede d'Occidente come una cosa - ciechi gli occhi di noi che passiamo, e non vediamo nell'ombra notturna una povera preda spaventata. Ma, mentre aspetto, osservo sotto alla scrivania i piedi di quei due. La ragazza africana ha esili piedi quasi nudi nei sandali; piccoli agili piedi da gazzella di savana, abituati a correre per fuggire, per sopravvivere. Don Oreste ha grossi piedi da contadino dentro a robuste scarpe nere, sciupate, risuolate, impolverate. Scarpe come carrarmati, che macinano la strada e non si fermano davanti a niente. I piedi della gazzella fremono sotto alla scrivania, inquieti, come chiedendosi se non sia il caso di fuggire di nuovo. I piedi di don Benzi sono immobili, piantati sul pavimento come radici di quercia. Fondati sulla roccia. (Sotto alla scrivania, dopo un po', finalmente fermi, in pace, i piccoli piedi di gazzella africana).
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