Così Arturito e i genitori danno speranza ai malati
giovedì 16 maggio 2024
Sono anni che Arthur Estopinan non parla a un giornalista di suo figlio. Ed è una gran bella notizia. «Vuol dire che Arturito sta bene, che non ha bisogno di trovare nuovi medici, nuovi farmaci o nuovi fondi per poter continuare a crescere», spiega Estopinan. Di Arturito abbiamo raccontato su “Avvenire” nel 2017, quando aveva sei anni e i suoi genitori si erano uniti alla battaglia per salvare Charlie Gard, il bambino inglese affetto da una variante della stessa rara malattia genetica del figlio di Estopinan. Anche a Olga e Arthur era stata presentata come inevitabile la prospettiva di un rapido deterioramento dei muscoli e degli organi vitali del loro bambino, fino alla perdita delle funzioni di fegato e cervello. La differenza fondamentale è che nel 2012 Arturito, quando aveva meno di due anni, ha ricevuto il via libera della Food and Drug Administration, l’agenzia per la sicurezza dei farmaci negli Stati Uniti, a provare un trattamento sperimentale. La luce verde era arrivata su base “compassionevole” perché l’alternativa era la morte certa. La terapia era un protocollo sviluppato da Michio Hirano, allora direttore del centro per le malattie mitocondriali e metaboliche del Presbyterian Hospital di New York, che da anni faceva ricerca all’avanguardia alla Columbia University. Era il primo e unico medico ad aver dato alla coppia una speranza. La sua medicina, il monofosfato deossinucleotide, aveva funzionato per Arturito e gli Estopinan erano determinati a mostrarne i risultati alle autorità britanniche. Ma queste non vennero smosse e i genitori di Charlie videro il loro piccolo spegnersi. «È una tragedia che non dimenticherò mai - dice oggi Estopinan -. Ero andato a Londra, avevamo fatto una protesta davanti all’ospedale pediatrico. Da quel giorno mi batto perché tutti i bambini come Arturito abbiano le sue stesse opportunità». Quando Arturito ha cominciato a stare meglio, a muovere le mani e i piedi e a restare in piedi con l’aiuto di un’imbracatura, Arthur e Olga hanno aperto la loro casa ai media di tutto il mondo in modo da aiutare altri genitori ad ottenere accesso, sia legale che economico, al cocktail di farmaci che aveva salvato loro figlio. «Abbiamo assistito una bambina in Turchia, altri in Brasile, Romania, Corea, Cile. Ci chiamiamo la famiglia Tk2, dalla sigla della malattia, e siamo sempre in contatto. La vicenda di Arturito ha avuto un vero impatto su tutti loro». E Arturito, come sta? Ora ha 13 anni, parla, tanto da divertirsi a pubblicare brevi video su YouTube come molti adolescenti. Respira da solo e mangia con un po’ di aiuto. Non ha il controllo di tutti i muscoli e ha bisogno di sostegno per stare in piedi, ma riesce a giocare con i suoi due cani, Tigger e Paprika, e a nuotare. «È felice», assicura mamma Olga, che si occupa di lui a tempo pieno. Intanto Arthur, che di mestiere fa il consulente governativo, è diventato una forza internazionale nella divulgazione della ricerca e della cura per la sindrome da deplezione del Dna mitocondriale. «Non è stata una scelta, ma oggi posso dire che quello che ci è successo è stata una benedizione - assicura -. All'inizio pensavo il contrario e mi chiedevo che cosa avessi fatto di male per meritarmi tutto questo. Ma ora sapere che abbiamo aiutato così tanti bambini e che Arturito è sereno mi fa vedere la mano della Provvidenza. All’inizio non lo capivo». Non che il cammino sia stato facile, ammette: le vittorie erano e sono spesso seguite da passi indietro. Per anni la famiglia ha vissuto a cinque minuti dal Johns Hopkins Children’s Hospital, perché Arturito almeno una volta alla settimana doveva essere portato al pronto soccorso. «Ma rifarei tutto - dice Arthur -. Ogni sua conquista è una gioia infinita. Cose come sedersi da solo, parlare. Finché è felice, stiamo bene».
Quest'anno la famiglia si è trasferita ad Annapolis, in mezzo al verde. «Crescere Arturito è uno sforzo collettivo - conclude Arthur -. Tutti si danno da fare: le nostre famiglie, i medici, i terapisti. Siamo molto fortunati. Ma ai genitori che ricevono questa diagnosi dico: non arrendetevi. Avrete momenti terribili, ma andate avanti. E contattateci: vi potremo aiutare». © riproduzione riservata
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