martedì 29 agosto 2023
L’uscita dall’emergenza sanitaria, che qui ha colpito meno che altrove grazie a un buon presidio territoriale, dopo nove anni di governo dei militari resta caratterizzata da ampie disuguaglianze
Un venditore di riso al mercato di Bangkok, in Thailandia

Un venditore di riso al mercato di Bangkok, in Thailandia - .

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Uscita relativamente indenne sul piano sanitario, ma con pesanti conseguenze su quello economico, la Thailandia mostra oggi insieme eccezioni e conferme. I 4,8 milioni di casi e poco più di 34mila decessi su una popolazione di 68 milioni indicano – pur nel Paese dove si è registrato ufficialmente il primo caso di Covid-19 al di fuori dei confini cinesi – la validità del sistema di sanità diffusa e delle regole di distanziamento, unite a altri fattori: climatici, di comportamento e di sospensione spontanea o imposta di movimento, dei rapporti lavorativi e sociali. La crisi pandemica si è imposta nel “Paese del sorriso” sulle difficoltà economiche e sulla costante instabilità politica, ma se ha creato una pausa nella conflittualità e nella percezione dei problemi già presenti, alla sua uscita ha mostrato ancor più la gravità e l’urgenza di risolverli. Ancora una volta il Paese, tra quelli di medio sviluppo con la maggiore disparità di benessere, si è trovato diviso tra chi non poteva che cercare di soddisfare le necessità immediate, coloro che restano favorevoli al mantenimento dello status quo e dei privilegi, e quanti promuovono l’impegno per un rilancio e un rinnovamento attesi da lungo tempo.

D’altra parte, l’uscita dalla pandemia dopo nove anni di governo dei militari, camuffato dal passaggio formale nel 2019 dalle divise agli abiti civili indossati dagli stessi individui, non può non aver risentito della loro incapacità di gestione e della mancanza di attenzione verso le reali difficoltà e potenzialità del Paese. Proprio su questo, oltre che su uno svecchiamento complessivo del Paese e su maggiori libertà e democrazia reale, molti hanno puntato nella fase post-pandemica, che ha coinciso con la campagna elettorale per il voto del 14 maggio scorso relativo alla Camera dei rappresentanti del Parlamento di Bangkok. Dalle urne è scaturita però una situazione in “stile thai”, nota per manipolare o aggirare la volontà popolare al fine di legare ancora una volta le sorti della popolazione agli interessi di poteri oligarchici e delle forze armate.

Dopo il voto, il Paese si è trovato di nuovo a subire la negazione della volontà di cambiamento mostrata prima nelle piazze e poi, senza ombra di dubbio, nei seggi. La candidatura a capo del governo di Pita Limcharoenrat, leader del partito Move Forward, maggioritario nella coalizione che le urne avrebbero legittimato a sostituire alla guida del paese i partiti filo-militari al potere dal 2019, è stata infatti bocciata. I l 12 luglio Pita era stato proposto all’unanimità dalla maggioranza alla carica di primo ministro, ma era stato sconfitto per poche decine di preferenze dal voto congiunto di deputati e senatori, questi ultimi di sola nomina militare. Una settimana dopo erano emerse divergenze tra il Move forward e il secondo partito della maggioranza, il Pheu Thai, in particolare sulla riforma dell’articolo 112 del Codice penale (Legge sulla lesa maestà) che il Move Forward aveva messo in evidenza nel suo programma elettorale considerandolo uno strumento repressivo verso i critici delle élite. Una revisione finirebbe infatti per coinvolgere la monarchia in una contesa politica che rischierebbe di innescare conflitto sociale e repressione.

Tuttavia l’intransigenza ha portato all’esclusione da una nuova candidatura del giovane leader politico nel frattempo privato del suo ruolo di parlamentare su richiesta della Commissione elettorale per presunto confitto di interessi durante la campagna elettorale. I l Pheu Thai ha di fatto sconfessato l’alleanza con Move Forward, con un voltafaccia difficile da spiegare ai suoi stessi elettori avviando colloqui ad ampio raggio per porsi al centro di una nuova maggioranza che includa anche parte degli avversari filo-militari e filomonarchici. Inoltre, l’incertezza della situazione e soprattutto le trattative in corso tra varie parti politiche e l’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, hanno finora reso impossibile il rientro di quest’ultimo già annunciato per il 10 agosto e poi cancellato, ufficialmente per ragioni di salute. Thaksin, controverso per le sue politiche populiste e la lotta indiscriminata ma politicamente fruttuosa contro la tossicodipendenza, è popolare tra i ceti meno favoriti quanto fortemente inviso all’establishment filomonarchico, ai militari e ai monopoli a guida familiare.

Esule volontario dal 2008 è inseguito da provvedimenti giudiziari in parte decaduti, ma che potrebbero ancora costargli diversi anni di carcere. In mancanza di un accordo negoziato dal Pheu Thai, di cui è stato fondatore e di cui è rimasto di fatto leader anche per buona parte della sua permanenza all’estero, difficilmente potrebbe rimettere piede in patria senza rischi. Un perdono reale o un periodo nell’infermeria di una prigione seguita dalla scarcerazione potrebbero soddisfare più parti, consentire un’ampia alleanza tra vecchi avversari e siglare la definitiva separazione dal Move Forward.

Se la politica le sue convulsioni, il rischio accentuato di destabilizzazione, in assenza in particolare del riconoscimento pieno del risultato elettorale, sono l’aspetto più importante di questo primo anno post-Covid, non mancano problematiche economiche e sociali. Sicuramente, nonostante qualche rimbalzo, più guidato (e propagandato) che incisivo del baht e qualche segnale di ripresa produttiva con l’export che fatica a prendere quota, la produzione agricola condizionata dal clima sfavorevole e il turismo che risente di costi elevati e saturazione delle infrastrutture decimate delle chiusure forzate, la seconda economia del Sud-Est asiatico ha scoperto i limiti del proprio ottimismo e della costante richiesta di fiducia da parte del governo. Difficile pensare che ogni cosa tornerà naturalmente al suo posto senza un reale cambiamento che tanti chiedono e molti temono.

Meno legata ai vincoli culturali, alle pressioni e anche alle censure interne, la fiducia dei tradizionali investitori internazionali è un segnale che le prospettive restano quanto meno incerte, dato che vanno delocalizzando nei vicini Vietnam, Malaysia e Filippine più di quanto investano in nuove iniziative o riportino nella madrepatria.

Un segnale forte di sofferenza e di impossibilità a far fronte alle difficoltà è l’elevato debito delle famiglie, frutto di politiche di credito assai liberali negli anni passati. In una situazione di relativa precarietà del lavoro, con un’estesa area di sommerso e di compensi bassi anche per mantenere la più ampia possibile la platea dei salariati con il fine di garantire la pace sociale, la costante sollecitazione all’acquisto di beni anche di forte impegno economico come le autovetture ha portato a una situazione debitoria che equivale al 90,6% del Pil, in media 3.800 dollari per abitante. La crisi dovuta alla pandemia ha fatto il resto, aggravando le aree di sofferenza sociale e incrementando quelle di privilegio, mentre il rapido invecchiamento della popolazione si è ancora più evidenziato sul piano medico e assistenziale. In Thailandia gli ultrasessantenni sono 12 milioni su 67 milioni di abitanti, una proporzione tra le più alte in Asia, e cresceranno ulteriormente fino a sfiorare il 30% della popolazione entro il prossimo decennio. Una sfida che come altre nessuno sembra al momento in grado di accogliere.

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