Cutro non potrà mai dimenticare: gente solidale, istituzioni lontane
martedì 27 febbraio 2024

Un anno dopo, non si può dimenticare. Quei novantaquattro morti sulla spiaggia di Steccato di Cutro, le scarpine, i vestiti, i piccoli peluche dei trentacinque bimbi annegati in quella notte di mare in burrasca, le urla strazianti dei familiari stretti ad abbracciare le piccole bare bianche nel Palamilone…

Sono fotogrammi rimasti impressi nella mia memoria da quel 26 febbraio del 2023, da quei giorni lividi d’inverno in cui accorsi a Crotone, anzi, tornai a casa – visto che qui sono nato e cresciuto – per raccontare, come cronista, quel grumo di dolore collettivo causato dall’ennesima tragedia del mare. Una tragedia che qui, in questo lembo di Calabria ionica che nasconde un cuore più grande di ogni retorica, ancora oggi nessuno intende dimenticare, perché ci rammenta quanto il dolore possa, come l’amore, affratellarci tutti.

In quelle ore, è bene ricordarlo ancora una volta, prima dei soccorsi ufficiali giunti drammaticamente in ritardo, furono uomini e donne di quella spiaggia a prodigarsi per sottrarre i naufraghi alle onde, per riscaldare i corpi dei bimbi intirizziti, per tirar fuori coperte e vestiti, cibo e latte e caldo. Furono i pescatori come Vincenzo Luciano a tuffarsi in mare, furono le madri di famiglia come Nicolina Parisi – la “nonna di Cutro” da poco premiata da Mattarella per il suo altruismo – ad aprire le loro braccia e le loro case ai sopravvissuti.

Talvolta, anche in occasione di eventi terribili, è amaro constatare come con il passare del tempo l’espressione “per non dimenticare” finisca con l’impolverarsi, per ridursi a un vuoto slogan. Troppe volte abbiamo visto come – quando il circo Barnum dei media trasloca e le telecamere delle tv e i nugoli di cronisti sciamano altrove – su un fatto cali il sipario e pian piano segua l’oblio. A Cutro non è accaduto. Quella necessità di non dimenticare nulla – le lacrime, il dolore, la fratellanza, la ricerca delle responsabilità - ha accompagnato la piccola comunità del Crotonese per tutti i 365 giorni finora trascorsi. Non è solo la toccante veglia dell’altra notte sulla spiaggia. In mille modi, con mille iniziative, i sindaci e i cittadini, la società civile e la Chiesa locale hanno disseminato una lunga serie di sassolini della memoria.

Il “giardino di Alì”, intitolato a uno dei bimbi morti nel naufragio, con 94 alberi ricorda tutte le vittime accertate. Due pool di avvocati, uno è coordinato dal mio amico d’infanzia Francesco Verri, assistono molti sopravvissuti. È sorta una rete di oltre 400 associazioni, chiamata proprio “26 febbraio”, per mettere in circolo informazioni. Un gruppo di giornalisti, riuniti attorno alla testata Crotonenews e capaci di commuoversi di fronte alle urgenze della cronaca, ha dato vita a eventi per fare memoria della strage, comprese le mobilitazioni di questi giorni. Uno di loro, Vincenzo Montalcini, continua a portare nelle scuole e nelle piazze – nel vibrante saggio “Quale umanità?” – il ricordo del caicco “Summer Love” e delle famiglie di giovani afghani e pachistani che su quel guscio di noce cercavano una vita migliore, via dalla miseria, dalle guerre e dalle persecuzioni subite in patria. Di più: qui il ricordo si è fatto accoglienza. E chi, fra i naufraghi, è rimasto, ha trovato lavoro, amicizia, rispetto. Insomma, in questo lembo di Calabria nessuno vuole dimenticare. E le cerimonie di questi giorni, a cui hanno preso parte autorità civili e religiose, sono il segno di una memoria permanente.

E perciò stridono ancor di più con l’assenza di istituzioni nazionali (nessun membro del governo è sceso da Roma in forma ufficiale, a parte una rapida presenza del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, al mattino presto e senza avvisare la stampa, come se si trattasse di una faccenda privata). Quasi che il naufragio di Cutro sia da suturare come una “ferita” locale, e non lo specchio di una tragedia epocale, quella degli annegamenti di migranti nel Mediterraneo, che conta finora quasi 30mila caduti.

Era già accaduto nelle imminenze della strage, quando ad abbracciare i sopravvissuti accanto ai feretri nel Palamilone si presentarono solo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e qualche esponente delle opposizioni (solo giorni dopo, l’esecutivo decise di tenere, in una Cutro blindata, il Consiglio dei ministri che avrebbe partorito il noto decreto legge anti-scafisti). Fu allora che davanti a Mattarella, commossi dal suo affetto paterno, i familiari delle vittime e i crotonesi chiesero a gran voce «giustizia e verità».

Già perché, come da un anno raccontiamo su Avvenire, ci sono ancora troppi passaggi da accertare nella sequenza di azioni, e soprattutto di inazioni, che precedettero il momento del naufragio, alle 4.15 del mattino. Perché i soccorsi non si mossero in tempo, sapendo che un barcone carico di migranti stava arrivando? E perché, perfino dopo lo schianto, quando i naufraghi lottavano per stare a galla nelle acque gelide, passarono altre ore prima dell’arrivo, a terra e in mare, di forze dell’ordine e militari? Sono i due interrogativi cardine su cui la magistratura sta indagando e ai quali ci auguriamo che presto un processo possa dare risposta, illuminando le zone d’ombra e le incongruenze nelle versioni ufficiali delle autorità italiane ed europee. Perché tutto ciò che è accaduto, davvero, non può e non deve essere dimenticato.

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