Guerra e diritto, l'Apocalisse non è destino
lunedì 22 aprile 2024

La guerra è affare politico. Si manda a uccidere e morire per egoismo, per il potere. Per controllare territori, risorse, anime. Per comporre controversie o vendicare torti. Occhio per occhio. Retribuire il male con il male. «Una pazzia» ripete Papa Francesco intendendo dire che non è mai un mero intervallo di sangue e di dolore dopo il quale tutto torna a ricomporsi. La guerra, scrive Natalino Irti, decreta tramonti e promuove nuovi ordini. O più spesso disordini: «Ciò che sorge o s’annuncia è sovente fuori da ogni disegno di statisti e governi». A questo incrocio della storia ci troviamo oggi, ancora una volta.

L’etica della guerra si esprime nel diritto internazionale, che si sforza di rendere giusto ciò che è sempre iniquo. Il diritto parla a due voci. Con una detta le condizioni affinché il ricorso alla forza armata sia legittimo. Con l’altra fissa le norme cui devono attenersi i belligeranti nel condurre le ostilità.

Primo. La tradizionale libertà assoluta per gli Stati di usare la forza armata fu temperata dal Patto della Società delle Nazioni del 1919 e dieci anni dopo dal Trattato sulla rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale. Venne il Secondo conflitto e nel 1945 la Carta delle Nazioni Unite che veste il monopolio dell’uso della forza armata nel Consiglio di sicurezza. Gli Stati possono usare la violenza solo per difendersi da un attacco in corso e in via preventiva quando l’aggressione sia imminente e manchi altro modo di impedirla, sempre che l’impiego della forza sia proporzionato. La rappresaglia armata, la vendetta, è proibita. Vale il principio di non reciprocità degli illeciti. Opposte immoralità non si compensano. La violazione del diritto internazionale da parte di uno Stato non permette a quello che ha subito un danno ingiusto di reagire con un’altra illiceità. È legittimo rintuzzare la violenza in corso cioè difendersi, non farsi giustizia arbitrariamente a sangue freddo. Di questi tempi la violenza armata viene inammissibilmente giustificata come diritto di difesa. È una pericolosa truffa delle etichette. Gli Stati spesso adottano doppie e triple morali. Condannano le azioni inique di nemici e avversari, condonano quelle di alleati e amici. Una deriva deleteria che può innescare una spirale incontrollabile di violenza primitiva e arbitraria.

Secondo. Gli Stati da lungo tempo hanno sviluppato consuetudini e patti per limitare la brutalità delle guerre sregolate. La grammatica del diritto dei conflitti armati ruota attorno a tre principi. «Umanità», che vieta l’uso di mezzi e metodi bellici che causano mali e sofferenze superflui. «Distinzione», che proibisce gli attacchi contro civili e beni non militari e quelli indiscriminati, realizzati con mezzi o metodi tali da generare danni incidentali ai non combattenti smodati. «Proporzionalità», che proibisce azioni suscettibili di determinare perdite umane e danni materiali non commisurati al vantaggio militare. Il diritto internazionale «umanitario» si rivolge ai belligeranti per civilizzare la guerra ed evitare che scivoli nella disumanità della vendetta indiscriminata e della punizione collettiva di inermi e incolpevoli. «Non c’era altra scelta», ripetono spesso le parti in conflitto. Quasi mai è vero. Il modo con cui sono condotte le campagne militari ha valenza etica e morale prima ancora che giuridica. Misura la qualità politica e civile di una nazione. L’indifferenza per la vita e la dignità altrui trascina qualsiasi società negli abissi degli istinti primordiali.
Queste regole minime di civiltà, calpestate e irrise, non bastano più, devono essere riconsiderate, interpretate rigorosamente. Rimbomba nelle coscienze l’urlo dei civili sgozzati, torturati, sequestrati, usati come scudi, sepolti sotto le macerie, assetati, affamati, operati su un pavimento lercio senza anestesia. Il diritto internazionale è troppo indulgente con le ragioni della guerra che, ha scritto Fréderic Mégret, è un’eccezione mostruosa ai diritti umani inalienabili. L’interesse militare spesso giustifica atti ripugnanti. Un’accondiscendenza intollerabile quando la violenza armata sia risultato di un’aggressione o di una reazione abnorme, smodata.
Chi usa la forza armata deve rispondere davanti alla legge e alla politica delle vite innocenti che contabilizza come poste negative trascurabili nel bilancio del proprio egoismo.

Di questi tempi è di gran moda discettare di catastrofe, della fine prossima dell’umanità e del mondo. L’emergenza è l’alibi per giustificare l’eccezione. L’apocalisse non è destino. Né scelta. Alle attuali condizioni, l’omicidio geopolitico è necessariamente omicidio-suicidio. La distruzione del pianeta e l’estinzione dell’umanità possono solo essere frutto di follia autodistruttiva o negligente imprudenza. Si possono evitare a due condizioni. «Non desiderare la fine del regime altrui», come ha scritto Lucio Caracciolo. Evoluzione del nono comandamento che impone di accettare il diritto di essere del nemico geopolitico e non adoperarsi per determinarne la scomparsa. «Nessuno minacci l’esistenza altrui», ha ammonito il Papa. «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te». Massima che esprime la virtù cardinale della dottrina confuciana jen, poi anche principio evangelico. In diritto e geopolitica si traduce reciprocità, dal latino reciprocus, «che va e viene, fluisce e rifluisce». Etimo illuminante. Se accetti e rispetti le norme e istituzioni internazionali anche quando operano contro l’interesse contingente tuo e dei tuoi alleati e amici, puoi sperare che quando ne avrai bisogno gli altri faranno lo stesso. Questo si deve pretendere dai governanti. Esercizi di lungimiranza. La rabbia cieca spinge nella trappola della vendetta che non allevia la sete di giustizia né lenisce il dolore, mentre nutre il ciclo dell’odio, del sangue e del male. Decretando il tramonto della civiltà umana.



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