La povertà e la disperazione nei campi siriani che accolgono profughi insieme a ex membri dello Stato islamico, nessuno vuole affrontare la loro situazione - .
Il 9 luglio saranno ormai sei anni dalla liberazione di Mosul dal Daesh e il 18 ottobre sei anni dalla liberazione di Raqqa. La sconfitta della “sharia militante” nelle capitali dello Stato islamico potrebbe sembrare definitiva se non fosse per le “insorgenze” jihadiste in territori sia iracheni che siriani dove il controllo del territorio è ancora una partita aperta tra autorità statali e scorribande di milizie. Ma l’eredità più pesante del tragico tentativo del ritorno al vero islam attraverso il combattimento armato con la folle pretesa di avere il diritto di stabilire chi sia musulmano e chi non lo sia, è in quella generazione di “bambini soldato” arruolati a forza dal 2014 al 2017 nelle madrasse dirette dal Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.
L’uso dei bambini soldato ha un infelice precedente nei “Leoncini di Saddam”, corpo paramilitare con reclute dai 10 ai 15 anni a cui il Daesh in qualche modo si è ricollegato, mutando ovviamente i contenuti dell’originaria ideologia Baath in quella dell’islamismo radicale. Un indottrinamento, spiega Stefano Luca in “I cuccioli dell’Isis” (Edizioni Terra Santa, 2020) che, oltre a fornire manovalanza alla battaglia, mira a una educazione che garantirà la “sopravvivenza anche se il Califfato fosse sconfitto militarmente”. Bambini cooptati, con compensi alle famiglie e stipendi per i giovani combattenti, anche fra figli dei foreign fighter: si tratta di una casta di “mujaheddin superiori” addestrati alla sharia e desensibilizzati alla violenza.
Più “economici”, capaci di obbedienza e lealtà di gran lunga maggiore rispetto agli adulti, sono permeabili a un indottrinamento che avviene attraverso un ben preciso curriculum scolastico. I l Daesh, nei suoi “tre anni di regno”, non ha chiuso ma semmai potenziato le scuole, riplasmando i programmi in modo da educare i suoi “cuccioli” ad essere i terroristi del futuro. Rigidamente separati i maschi dalle femmine, a partire dai 10 anni era imposto, a pena di torture o violenze per chi si rifiutava, un serratissimo addestramento militare per diventare spie, predicatori al servizio della propaganda o soldati. Questo l’unico futuro possibile per la “generazione Daesh”, con le reclute “migliori” che possono aspirare a diventare – prospettiva al solo pensiero raccapricciante - dei boia o dei martiri suicidi. Simmetricamente si inculca alle ragazze, definite “i fiori e le perle del Califfato”, di diventare spose bambine sin dall’età di nove anni e di generare uomini da inviare in guerra. Questo l’insegnamento dall’”internazionale del terrore” nelle madrasse di Raqqa e Mosul: una pesantissima eredità che non si è certo dissolta con l’ammaina bandiera del nero vessillo del Califfato.
Una “riserva” di possibili futuri terroristi jihadisti è il campo di al-Hol, nel governatorato di Hassaké, Siria nordorientale. Questa enorme tendopoli costruita nel 1991 per ospitare i profughi iracheni della prima guerra del Golfo, attualmente sotto l’autorità del Rojava – il Kurdistan siriano – è come l’incubatrice di tutti i dilemmi che la deradicalizzazione dei cuccioli del Califfato pone alle nostre società. Una zona rurale fortemente militarizzata - sotto il controllo delle Forze democratiche siriane e non del governo di Damasco, ma di fatto in terre contese - accoglie 69mila persone, in gran parte profughi in fuga da Deir ez-Zor e da Baghuz, l’ultima sacca di resistenza dove 40mila irriducibili si erano asserragliati nel marzo del 2019 prima di cadere nelle mani delle Fds. In quell’ultima tremenda battaglia contro il Califfato trovò la morte pure l’italiano Lorenzo Orsetti, arruolatosi volontario con i curdi: deposte le armi gli irriducibili e le loro famiglie vennero convogliati a forza nel girone dantesco di al-Hol.
Nel novembre 2017, cioè appena cadute le ultime roccheforti, si stimava che fossero circa 1.500 i mujaheddin rientrati in qualche modo in Europa rispetto ai circa 5.000 partiti negli anni precedenti per combattere nell’internazionale del terrore in Siria e Iraq. Nel solo Regno Unito, a ridosso della caduta di Baghuz, sarebbero stati circa 400 i foreign fighter rientrati in patria, mentre in Germania sarebbero stati poco meno di 300 i “reduci del terrore”. Ma dopo i primi, piuttosto fortuiti rientri, la situazione si è cristallizzata. Nel campo la violenza è sempre al livello di guardia: tra il gennaio e il marzo 2021, ad esempio, si sono registrati 47 omicidi che le incursioni e gli arresti della polizia curda cercano di contrastare.
Intanto nessuno vuole decidere di cosa fare di questi prigionieri che hanno un diverso grado di radicalizzazione. Per ora solo 135 famiglie di cittadini iracheni filo Isis sono state ricollocate nel campo di Jeddah 5, dopo una sofferta decisione del governo iracheno e di recente il Kirghizistan ha approvato un piano di deradicalizzazione per circa mille individui. Una esperienza pilota, quest’ultima, che brilla per solitudine. Nella prima parte del campo di al Hol sono ospitati profughi iracheni e siriani. La seconda parte, definita nei report tecnici “annex”, raccoglie il 14% circa della popolazione del campo (9mila persone circa) di 57 nazionalità diverse: essendo i combattenti dell’”internazionale jihadista” o fuggiti o, in gran parte, morti in battaglia, nell’”annex” vivono per lo più i figli e le spose del jihad.
Minori e donne tunisini, sauditi, ceceni, turkmeni per citare alcune delle origini più ricorrenti. Il ricollocamento di queste “spose” e “figli” del jihad pone dei formidabili quesiti giuridici e altrettanto sfidanti questioni politiche. Questi abitanti dell’annex - che vivono in condizioni di assoluto degrado e sono esposti, all’interno del campo, a un rischio di “radicalizzazione di ritorno” - non sono combattenti e presentano un basso grado di coinvolgimento con il Daesh: impiegati di basso livello, cuochi, donne non combattenti, spose di guerriglieri o figli in alcuni casi nati dopo il trasferimento ad al-Hol.
Perché i collocamenti sinora sono così pochi? Secondo il diritto internazionale non è possibile una “riabilitazione coercitiva” per persone senza una imputazione formale e men che meno una sentenza ma l’unica alternativa è la permanenza senza un termine nel campo. Di fatto al-Hol, con la sua pesante eredità di violenza e fondamentalismo, come anche con le condizioni di vita insostenibili e per la mancanza di libertà, si presenta come una struttura in cui si applica una sorta di “detenzione arbitraria”. L’obiettivo è quindi un “ricollocamento comprensibile” sia per chi accetta un percorso di reinserimento, sia per società e governi che giustamente chiedono garanzie sul rientro di soggetti con evidenti affinità con la peggiore violenza criminale organizzata di questo ultimo decennio.
Come disinnescare questa vera bomba sociale ad orologeria? All’interno del campo, affermano alcuni analisti, sarebbe opportuno potenziare i servizi sanitari di base e quelli educativi: questo ammorbidirebbe l’opposizione interna rafforzando i diritti individuali. D’altra parte alcuni di questi irriducibili non intendono “abiurare” allo jihadismo del Daesh: persone violente per cui, accertate responsabilità e radicalizzazione, andrebbero prese adeguate misure di contenimento. Dall’altro lato, in particolare per donne, minori e famiglie, bisogna esercitare tutte le protezioni possibili ma finalizzate al ricollocamento nelle terre di origine. Questo, in particolare per gli iracheni e siriani, presuppone un programma di ritorno in contesti – come quello di Raqqa e Mosul – attualmente depopolati e ancora da ricostruire.
Si tratta di un enorme processo di negoziazione e di riconciliazione sociale a cui nessuno sembra poter o voler mettere mano. Dobbiamo avere la coscienza che ad al-Hol vivono degli esseri umani: “O buttiamo via la chiave e fingiamo di dimenticarci di loro, o si deve trovare una soluzione”, è l’appello che viene da alcuni operatori umanitari che preferiscono l’anonimato. Onu e Unicef sinora non sono stati in grado di trovare adeguate soluzioni, ma di fatto ad al-Hol ci sono persone che vivono in condizione di detenzione di fatto “per crimini non provati”. La soluzione non è quella di chiudere il campo, “ma di elaborare un ventaglio di soluzioni equilibrate e realistiche”.
Ad Aleppo l’incontro tra il padre francescano Firas Lufti e la psicologa musulmana Binan Kayyali ha dato origine al progetto: “Un nome e un futuro”, dove giovani di famiglie radicalizzate, attraverso la formazione professionale e percorsi psico-pedagogici vengono riabilitati. Un seme nel deserto di Aleppo Est, rasa al suolo dalla guerra civile siriana. L’auspicio è che le Chiese d’Oriente, uno dei pochi presidi educativi effettivamente attivi in Siria ed Iraq, convochino tavoli e aprano il dibattito per cercare un futuro ai cuccioli del Califfato di tutte le Aleppo e le al-Hol dimenticate.