sabato 13 maggio 2023
A Diyarbakir un voto carico di tensione. "Qui tutti sono contro la sua politica". Boldrini guida gli osservatori internazionali; "La svolta sarebbe importante"
Manifesti elettorali ad Ankara

Manifesti elettorali ad Ankara - Reuters

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«Con Erdogan non avremo nessuna libertà, con Erdogan non abbiamo un futuro. Puoi parlare con chiunque qui a Diyarbakir: siamo tutti contro la sua politica, ma basta definirsi curdo per essere bollato come un terrorista». Quasi urla, concitato, con in mano il simbolo del Yesil Sol Parti (Ysp) seduto a un tavolino nel cortile del vecchio caravanserraglio Hayri. «Se vince Kilicdaroglu l’economia migliorerà, il nostro popolo avrà la pace, potremo usare il curdo e saranno rispettati i diritti delle donne». È la notte che apre il sabato di questa lunghissima vigilia di voto per le presidenziali e per la Grande assemblea, è la notte della speranza che urla nei 26 anni di questo piccolo commerciante che aspetta come una liberazione la mattina di domenica per andare a votare.

Hayri Yigitcan è un nome di battaglia: «Se leggono queste dichiarazioni prima del voto…» ti dice con un sorriso che sa di baldanza e sfida, mostrando i polsi incrociati come di chi viene ammanettato. Non è una spacconata da bar: lo scorso 25 aprile 200 attivisti, giornalisti, attori di teatro sono stati presi in custodia e 15 di loro sono tuttora in arresto con l’accusa di fiancheggiare organizzazioni terroristiche. Intanto sul telefonino di Hayri compare la foto di Salahattin Demirtash – il leader dell’Hdp in carcere sull’isola di Imrali – con tanto di dedica e autografo. La vittoria – dopo che da Istanbul è giunta la notizia del ritiro della candidatura di Muharrem Ince – sembra a portata di mano nel Kurdistan turco, ma la forza di un apparato statale capace di rimuovere dai villaggi del distretto tutti i sindaci eletti è come un macigno che opprime. Il voto di oggi, spiegano gli attivisti dell’Hdp che rischiando di essere dichiarato fuorilegge questa volta si presenta sotto la bandiera del Ysp, è già un ballottaggio: «Nella circoscrizione di Diyarbakir, alle scorse elezioni parlamentari, l’opposizione ha vinto 9 dei 13 seggi: quest’anno puntiamo ad averne 12».

Così l’ultimo comizio in piazza Istasyun Meydani si trasforma in festa popolare prima della battaglia voto su voto. O forse anche oltre: timori di brogli e sinistre allusioni a un possibile nuovo golpe non fermano però la danza in piazza dei giovani curdi. Questa volta, è convinzione diffusa, «si può fare la differenza: questa è una regione molto povera, molti lavorano nelle grandi città come Istanbul, Ankara e Smirne ma questa volta sono rientrati tutti per votare». Un appuntamento che ha mobilitato pure delegazioni di parlamentari e attivisti giunti da Italia, Spagna, Germania, Svezia e Danimarca arrivati fino in Kurdistan su invito del’Hdp. «La vittoria di Kilicdaroglu sarebbe una svolta democratica per la Turchia, e un cambio di politica con l’Unione Europea e con altri partner internazionali. Per questo è importante essere qui e contribuire al buon andamento delle elezioni», afferma Laura Boldrini da sabato a Diyarbakir per guidare una delegazione di osservatori internazionali.

In fondo il moderato Kemal Kilicdaroglu non sembra scaldare il cuore dei curdi. Decisiva comunque, in questa campagna elettorale, l’alleanza per nulla scontata tra l’Hdp a maggioranza curda e il partito repubblicano Chp di Kilicdaroglu, erede della tradizione kemalista. Ma ancor più che le alleanze di una opposizione variegata è la crisi economica ad aver sbriciolato il consenso del blocco di potere coagulatosi in 20 anni attorno a Erdogan. L’inflazione lo scorso autunno, su base annua, era dell’86 per cento mentre negli ultimi mesi viaggia oltre il 40 per cento nonostante Erdogan, negli ultimi due anni, abbia licenziato due governatori della Banca centrale. E il sisma del 6 febbraio è stata come una bomba ad orologeria per una popolazione già stremata. La terra ha tremato anche a Diyarbakir provocando quasi 500 vittime, facendo crollare una dozzina di palazzi e lasciandone circa 500 inagibili. Necla Karaman lava i piatti nel cucinino del suo container di 21 metri quadri dove vive con il marito e due figlie, mentre il figlio è militare. Il Kayapinar camp, molto ordinato, ha aperto da appena tre settimane e potrebbe essere una struttura modello che accoglie quasi 1.700 sfollati. «Certo che andrò a votare» ti dice Necla dopo tre mesi vissuti in un dormitorio pubblico . La sua casa è crollata, e «non ho idea di quando potrò averne di nuovo una mia», aggiunge guardandoti fisso negli occhi.

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