La scrittrice e poetessa Fedaa Zeyad
«Ancora più difficile che smontare le tende, è provare a decifrare gli sguardi con cui le persone si osservano a vicenda» rifletteva qualche giorno fa la scrittrice e attivista culturale Fedaa Zeyad, affidando le sue parole a un post online. Lo scriveva mentre si trovava ancora a Rafah, l’ultima città rifugio per gli sfollati dopo sette mesi di guerra e ora il posto da cui fuggire, per trovare riparo altrove, incalzati da nuovi ordini di evacuazione e dall’offensiva israeliana avviata da Est per combattere i battaglioni di Hamas. In 450.000 avrebbero già lasciato la città dal 6 maggio, secondo le stime delle Nazioni Unite.
«Ci sono persone che smontano la propria tenda, e altre che le guardano, in un misto di sentimenti difficili da descrivere o classificare, tra miseria, confusione, disorientamento, ansia, paura, routine o indolenza. Anche io condivido con loro gli stessi sguardi, mentre osservo gli sfollati quando appaiono agli incroci delle strade ed escono dagli accampamenti dell’esilio», proseguiva la scrittrice, rivolta ai quindicimila follower che conta sui social. A loro (ma anche a se stessa, per tenere memoria di quello che accade) in questi mesi ha raccontato la sua vita quotidiana in guerra. «Penso di avere lo stesso sguardo e lo vedo negli occhi di una donna che raccoglie la sua tenda, fissa il cielo e sussurra: "Tu sei più misericordioso nei nostri confronti che tutto il mondo intero". Un’altra signora trasporta del pane sopra la testa e chiede: Dunque ora dove dovremmo andare?».
Dopo avere perso la casa in cui viveva con il padre e la sorella nella zona di Sudaniya, a nordovest di Gaza, bombardata il 13 ottobre, Fedaa Zeyad si è trasferita a Khan Yunis, poi a Rafah». Siamo stati ospitati da zii, da un’altra sorella, poi da un amico» ha raccontato ad Avvenire via Messenger. « A Rafah abbiamo affittato una casa, ma cerchiamo un luogo alternativo dove andare in caso di pericolo molto ravvicinato, soprattutto perché il rumore dei bombardamenti non si ferma da giorni», spiegava esattamente una settimana fa. Alla fine il rischio si è fatto troppo vicino, così anche lei si è unita alla massa di gazawi che da Rafah stanno fuggendo.
«Le esplosioni erano a circa 7 chilometri da dove stavamo noi. Le persone in città sono come in un grande labirinto, tutti nelle tende hanno paura di un attacco improvviso. Di colpo, la minaccia si fa vicina e non sai come muoverti, né cosa portare con te», ci racconta. Descrive l’area al-Mawasi, indicata come «zona umanitaria» dall’esercito israeliano, come un posto «non appropriato, non umano, non sicuro, affollato, privo d’acqua, di elettricità, dei bagni». Intanto, Rafah si sta trasformando piano piano «in una città di fantasmi», anche se andarsene via dal Sud per una famiglia può finire con il costare «400 dollari, mentre c’è chi non ne possiede che 20. Molti non possono permettersi di pagare e sono costretti a rimanere là. Oppure, se ugualmente decidono di partire, si avviano a piedi, percorrendo lunghe distanze». Online circolano annunci di autisti che si offrono di accompagnare gratis gli sfollati, a cui però viene chiesto di portare con loro una tanica di carburante.
«Esistono iniziative individuali e collettive. Pur non sufficiente allo scopo, la solidarietà popolare è presente». Lei stessa, dall’inizio di marzo, ha dato una mano con alcuni amici in un campo di sfollati vicino alla casa presa in affitto a Rafah. Della sua fuga dalla città, in direzione di Deir al-Balah, dove si trova ora, ci ha scritto: «strade sono piene di sfollati che scappano. Mentre ero alla guida della mia auto, sin dall'alba e per tutta la mattinata del giorno del trasferimento, il boato delle esplosioni è stato terrificante».