sabato 14 ottobre 2023
Gli elettori hanno bocciato la nascita di un organismo grazie al quale gli aborigeni avrebbero potuto presentare proposte di legge sui temi che li riguardano
Vince il No al referendum storico per i diritti degli aborigeni

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Gli australiani hanno rifiutato di concedere agli aborigeni il riconoscimento costituzionale e maggiori diritti. L'ha annunciato il vice primo ministro Richard Marles. "Gli australiani non hanno votato per una modifica della Costituzione", ha detto Marles. "Rispettiamo molto questo risultato". Con il 45% dei voti scrutinati, i No sono al 56,9% e i Sì al 43,1%.

L'Australia ricorre raramente nei media italiani, e in genere per motivi che la riguardano indirettamente, legati agli equilibri internazionali. Ma il 14 ottobre ha ospitato un referendum che merita molta attenzione. I cittadini della remota federazione insulare dovevano decidere sull'eventuale nascita della cosiddetta Indigenous voice to Parliament, un organismo grazie al quale gli aborigeni avrebbero potuto presentare proposte di legge sui temi che li riguardano.

Si trattava di una novità molto importante: fra i quattro Paesi nati dal colonialismo britannico (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti) l'isola è il più arretrato per quanto riguarda i diritti degli abitanti originari, che possono votare soltanto dal 1967. Non esiste alcun trattato che regoli i rapporti fra loro e la maggioranza di origine europea. Il Paese si fonda infatti sul concetto di terra nullius: il diritto australiano afferma che prima dell'arrivo dei britannici il Paese non apparteneva a nessuno, illudendosi così di mettersi al riparo da eventuali contestazioni future.

Anthony Albanese, il premier laburista eletto nel 2022, aveva inserito il referendum nel suo programma elettorale. In questo modo voleva accogliere le richieste di un documento diffuso dalle associazioni aborigene nel 2017 (Uluru Statement from the Heart), che chiedeva una riforma costituzionale e la creazione dell'organismo consultivo suddetto. Albanese è degno erede di un altro premier laburista, Gough Whitlam (1972-1975), al quale si devono le prime timide riforme, fra le quali la creazione del Dipartimento degli Affari Aborigeni. La proposta del premier attuale era stata accolta da reazioni contrastanti. Accanto ai due schieramenti principali – laburisti e verdi a favore, conservatori contrari – era emersa una posizione imprevista.

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La maggior parte delle associazioni aborigene si è dichiarata favorevole, ma non sono mancate quelle contrarie. La più attiva è il Blak Sovereign Movement (BSM), che rifiuta la riforma giudicandola insufficiente. Fortemente anticolonialista, il BSM reclama la piena sovranità della minoranza autoctona, che include la questione spinosa dei diritti territoriali. L'esponente di spicco del Bsm è Lidia Thorpe, già senatrice verde, che aveva lasciato questo incarico nello scorso febbraio in aperta polemica non solo col governo, ma anche con le associazioni indigene favorevoli al referendum. Una posizione tutt'altro che sorprendente: il 2 agosto 2022, durante il giuramento parlamentare, Thorpe aveva promesso "totale lealtà a Sua Maestà la regina Elisabetta II, la colonizzatrice", sottolineando queste parole polemiche col pugno chiuso alzato.

Il referendum del 14 ottobre, quindi, era gravato da incognite. La storia ci ha insegnato che anche le riforme più giuste, messe alla prova dei fatti, possono tradursi in pochi aggiustamenti formali. Tanto più se si tratta di diritti delle minoranze, come in questo caso. Ora la bocciatura della proposta dà alle associazioni indigene che erano contrarie la possibilità di dimostrare che la loro posizione era fondata. In questo modo la soluzione dei numerosi problemi che travagliano la minoranza indigena viene rinviata ancora una volta.

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