mercoledì 22 maggio 2024
Francesco Cannadoro racconta la sua vita con la moglie Valentina e con il figlio Tommi, nato con una malattia neurodegenerativa che al momento non ha una cura e neppure un nome
Francesco Cannadoro con la moglie Valentina e il figlio Tommi

Francesco Cannadoro con la moglie Valentina e il figlio Tommi

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«Siamo insieme da tredici anni e ancora non ci credo che tu sia la famiglia che sognavo da ragazzino, piangendo sotto le coperte, nella mia stanza, in comunità. O su una panchina, qualche anno dopo, quando non avevo un tetto sopra la testa, ma un cielo ostile, nonostante fosse pieno di stelle meravigliose. Non potevo visualizzare il tuo viso ma, quando abbiamo deciso di provare a essere una famiglia e ho cominciato a sentire le prime emozioni, ti ho riconosciuto subito». Lo scrive il 41enne Francesco Cannadoro nel suo ultimo volume intitolato “Due come noi tre”, autopubblicato su Amazon dopo diversi libri di successo: da “#cucitialcuore. Diario di un padre fortunato” (Ultra 2019) a “Quanto mi servivi” (Ultra 2021), da “Io e il drago. Storia di Tommi, raccontata da Tommi” (De Agostini 2022) a “Come i bambini sotto il lenzuolo”, autopubblicato lo scorso anno.

Cresciuto nelle comunità alloggio per minori, Cannadoro ha avuto una famiglia assente e ha girato il mondo lavorando per 6 anni come animatore turistico. Poi ha incontrato Valentina e dal loro amore è nato Tommaso detto Tommi, nato con una grave malattia neurodegenerativa che lo ha portato con il tempo a essere disfalgico, non vedente, epilettico e ad avere un grave ritardo psicomotorio. Ma ad oggi non c’è una diagnosi precisa né la patologia di cui è affetto Tommi – che a luglio compirà 10 anni – ha un nome.

Oltre a essere caregiver del figlio insieme alla moglie, dal 2016 l’autore è blogger e content creator per il web sui temi della genitorialità e della disabilità; sui profili social ha raggiunto numeri da influencer. Da anni è impegnato nella sensibilizzazione su questi argomenti, mettendosi in gioco in prima persona e raccontando di sé e della sua famiglia alle prese con la disabilità di Tommi, senza filtri e falsi buonismi. Il suo motto? «La disabilità fa schifo, ma la tua vita, nonostante la disabilità, fa schifo solo nella misura in cui tu glielo consenti». Riguardo al suo ultimo libro, lo definisce «una lettera d’amore alla mia famiglia, e un manuale sull’arte dello sticazzi, fondamentale per sopravvivere, ancora di più se di mezzo c’è la disabilità di un figlio. Non voglio insegnare niente a nessuno, ma condividere, perché la conoscenza è alla base dell’inclusione. E, a oggi, mi perdonerete, ma non è che ne sappiate poi molto di disabilità e di tutto quello che le gira intorno, altrimenti il mondo sarebbe diverso. Ammesso che non la viviate in prima persona, chiaro. In quel caso, in questo libro potreste trovare quel conforto che deriva dalla consapevolezza di non essere soli. Fate finta che io sia quell’amico che a cena ha sempre un paio di aneddoti divertenti da raccontare e riesce a strapparvi un mezzo sorriso anche quando vi racconta una sfiga pazzesca. Io, però, non ho solo un paio di aneddoti gustosi, ma molti di più, anche se c’è da dire che un libro non è una cena, per quanto quelli scritti bene si facciano mangiare. Non so se sarà il caso di questo, ma mi direte. Vi accompagnerò dentro la nostra vita, e da lì faremo un tuffo nei nostri cuori, viaggeremo fino alle teste e ci faremo buttare fuori insieme ai pensieri che vi nascono».


Francesco Cannadoro ha un suo stile intriso di ironia nel raccontare la vita familiare: «I caregiver sono campioni mondiali di campeggio in salotto. Spesso, le condizioni delle persone di cui ci prendiamo cura ci obbligano a vivere una vita da reclusi o quasi. Le condizioni, non le persone, sia chiaro», spiega. E sintetizza com’è partito il suo attuale lavoro: «A dirla tutta, sul web, ho cominciato chiedendo aiuto. Valentina e io non sapevamo dove sbattere la testa non appena avevamo saputo cosa avremmo dovuto affrontare insieme a Tommi, e avevo pensato di provare a radunare un po’ di persone che ne sapessero più di noi sulla disabilità, condividendo le nostre giornate e proponendo una narrazione leggera e un punto di vista positivo».

Infatti la forza di questa famiglia, «come squadra, è sempre stata quella di fare del nostro meglio per stare a galla, partendo dal morale. Non sono mancati i periodi negativi, ovviamente, quelli in cui si fa una fatica del diavolo a trovare il lato bello delle cose, perché tutto ciò che ti accade sembra ingiusto e sproporzionato, ma condividendoli abbiamo ricevuto supporto emotivo a palate da chi si era affezionato a noi in rete. Così ho deciso di restituire alla rete quello che ci aveva dato, proseguendo nel percorso di condivisione sempre con maggiore consapevolezza. Siamo stati di supporto a tante famiglie, così come altre lo sono state per noi. Per la maggior parte del tempo avrei potuto lavorare da casa, dietro al mio pc, godermi mio figlio ed essere di supporto alla mia famiglia, invece che al titolare del bar in cui lavoravo».

Purtroppo non mancano gli attacchi e le critiche degli haters: «Al giorno d’oggi, se riesci a mantenerti grazie ai social network, vieni buttato senza pietà nel calderone dell’odiatissima categoria degli influencer». Ma Cannadoro ha le idee chiare e la capacità di replicare. E soprattutto ha un punto fermo, sua moglie: «L’unica che ha il potere di cambiare il corso delle mie giornate con uno sguardo è lei. Ho bisogno di sapere che sta bene e che è felice di fare quello che stiamo facendo insieme. Però è diverso da quello che provavo da ragazzo, quando elemosinavo certezze. I suoi input sono le indicazioni. Perché se è felice lei, lo sono io. Non mi serve molto altro. Purtroppo molti, al giorno d’oggi, vivono la famiglia come una gara interna tra moglie e marito, ma non lo è. Non è proprio una gara, a dirla tutta, nemmeno con le altre famiglie. È una cosa personale, intima, un vestito che, se vuoi, puoi indossare per il resto della tua vita e, quindi, dev’essere fatto su misura. Ma non su misura di uno dei componenti. È più come se due biciclette si unissero a formare un tandem ed è su quello che andrebbero prese le misure e fatto il vestito. Ogni vestito avrà colori e misure diverse da quello degli altri. A ognuno il proprio equilibrio, ingiudicabile dall’esterno, basato sulle peculiarità dei singoli componenti della famiglia. Nessun ruolo predefinito. Nessuna distinzione tra cose da uomo e cose da donna, perché, tolta la gravidanza, tutti possono potenzialmente fare tutto. Non ci sono cose da mamma o cose da papà».

Non a caso il libro si conclude con il capitolo “Lettera a mia moglie”, da cui sono tratte le righe iniziale di questo articolo. Inizia così: «Ti avevo detto che non l’avrei scritta, ma mi piace sorprenderti». E conclude: «Da quando siamo caregiver portiamo un peso che ci fornisce da sé la spinta per portarlo. Noi siamo l’auto e Tommi il motore. E a queste condizioni, chi li ferma due come noi? Anzi, due come noi tre».

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