Il vicepremier cinese Liu He e il presidente americano Donald Trump alla Casa Bianca il 4 aprile 2019 - Epa-Ansa
L’accordo commerciale che il presidente americano Donald Trump e il vice premier cinese Liu He firmeranno oggi alla Casa Bianca è una tregua, non una pace. Questa prima intesa serve a entrambi: a Trump per riguadagnare consensi tra gli agricoltori che hanno visto precipitare le loro esportazioni verso la Cina, a Xi Jinping per ridimensionare uno scontro che sta danneggiando molte aziende cinesi.
Sul testo definitivo restano ancora diversi punti poco chiari. Dalla Casa Bianca hanno lasciato filtrare che Pechino nel giro di due anni comprerà forniture di energia americana (presumibilmente gas naturale liquefatto e petrolio) per 50 miliardi di dollari, porterà a 56 (dai 24 del 2017) i miliardi di dollari annui di importazioni agricole e aggiungerà anche l’acquisto di altri 80 miliardi di prodotti del manifatturiero americano. Sommando tutto, si arriva a quasi 200 miliardi di maggiori importazioni. Una cifra enorme.
L’agenzia finanziaria Reuters ha raccolto il parere di diversi analisti molto scettici sulla possibilità che la Cina possa davvero comprare tanto Made in Usa senza danneggiare i suoi produttori nazionali e tagliare drasticamente le importazioni da altre aree del mondo. Per quanto Trump abbia insistito nel ripetere che subito dopo la firma inizieranno le trattative per la “fase 2” dell’intesa in molti dubitano che già questa “fase 1” possa concretamente portare i risultati annunciati. La Cina, per il momento, incassa il blocco dei nuovi dazi che sarebbero dovuti scattare il 15 dicembre e anche l’eliminazione dell’etichetta di “manipolatore di valuta” dai documenti del Tesoro americano.
Certamente non contribuisce a migliorare il clima tra Washington e Pechino il documento che ieri il rappresentante al Commercio americano Robert Lighthizer ha firmato assieme ai colleghi Phil Hogan, commissario al Commercio europeo, e il ministro giapponese Hiroshi Kajiyama. I tre, che rappresentano nazioni che valgono circa un terzo degli scambi globali, si sono ritrovati nella capitale americana e hanno siglato una dichiarazione unitaria con due punti centrali: rendere più severe le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio sui sussidi che i Paesi possono dare alle aziende; contrastare le pratiche di trasferimento forzato di tecnologia e proprietà intellettuale.
La dichiarazione non menziona mai la Cina, ma il riferimento è evidente: entrata nella Wto diciotto anni fa, Pechino ha sfruttato al massimo le possibilità offerte dal libero mercato per aumentare le sue esportazioni (passate da 500 a più 4mila miliardi di dollari in 18 anni) senza però creare al suo interno il contesto per una leale competizione tra le aziende.
Difatti Pechino nel 2016, dopo 15 anni di permanenza della Wto, si aspettava il riconoscimento dello status di “economia di mercato” che avrebbe consentito un taglio dei dazi sui suoi prodotti, ma Stati Uniti ed Europa non glielo hanno concesso e ora vogliono piuttosto adeguare le regole della Wto per contenere questo nuovo entrato sempre più ingombrante.