domenica 25 dicembre 2011
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La prima piccola ospite entrò nella casa 5 anni fa. Anche lei, come tut­ti gli altri che la seguirono, era stata abbandonata dai genitori e aveva gravi disabilità. Oggi sono 20 i bambini che a­bitano nella «Hogar Niño Dios», la casa del Dio bambino, a Betlemme, a pochi passi dalla basilica della Natività. Nell’e­dificio che il patriarcato latino di Geru­salemme ha concesso – per un tempo il­limitato – alle suore del Verbo incarnato, il primo dovere è accogliere tutti. Il cari­sma di padre Buela, nato nel 1984, conta tanti religiosi e religiose diffusi in 40 Pae­si in tutto il mondo. Fin dall’inizio le suo­re della congregazione si sono dedicate alle opere di carità, e nella casa di Be­tlemme lavorano da 5 anni per testimo­niarla a bambini handicappati senza più genitori. Non importa di quale religione. In questo paese dell’antica Palestina non esistono crociate o guerre sante. Quando tutti condividono le stesse pene, sono i problemi a unire gli animi. «Alcuni vivono davvero in condizioni di­sastrose », ci racconta suor Maria della San­ta Croce, che vive a Betlemme da 3 anni. Mentre ci accompagna lungo i locali del­la struttura, vediamo avvicinarsi un bam­bino, si trascina da terra con le mani, per­ché le sue gambe non gli permettono di reggersi in piedi. Avrà cinque, sei anni al massimo. «Si chiama Firas – ci spiega la suora – ed è un bambino che viene da u­na famiglia cristiana. Conosciamo i geni­tori, ogni tanto vengono a trovarlo, ma non può tornare a casa». Anche se la famiglia è cristiana «la cultura dominante è quella musulmana: Firas ha una sorella perfet­tamente normale, e se tra i coetanei si ve­nisse a sapere che ha un fratello disabile non avrebbe più possibilità di sposarsi. Per questo i genitori hanno deciso di abban­donarlo ». Spesso le suore vanno a par­lare anche con la famiglia. «Cerchiamo di convincerli che ogni bambino è un dono di Dio, e a riprenderseli in casa. Ma è difficile, molto difficile. Fino a og­gi nessun bambino è riuscito a torna­re dalla sua famiglia». E alcuni non torneranno mai, pur­troppo. La suora ci indica una ragazza sui 25 anni, di famiglia musulmana. «Lei è Nadira, è qui da tantissimi anni. Ha un ritardo mentale grave, e quan­do era piccola è stata violentata dal fra­tello ». Nadira abbraccia suor Maria, ma con noi è timida, si ritrae per pudore. «Quando sua madre l’ha saputo ha de­nunciato il fratello, ma per il padre la bam­bina si è macchiata di adulterio e se torna a casa, la deve ammazzare». È una delle tante, crudeli, leggi di questa società. Nell’idea della gente, una ragazza disabi­le in un Paese musulmano ha lo stesso valore di un oggetto. «Per questo vengo­no abbandonati, alcuni anche due volte. Da qualche mese abbiamo accolto que­sta bambina, Zahira, è stata abbandona­ta dai genitori naturali perché è schizo­frenica. I servizi sociali l’hanno poi con­segnata a una famiglia adottiva. Ma ap­pena si sono accorti che era schizofreni­ca, anche i genitori adottivi l’hanno la­sciata in strada». Le uniche che l’hanno accolta sono state le suore. Per questo i rapporti con i vicini musul­mani sono ottimi. «Quando ci vedono per la strada ci salutano sempre, ci ringrazia­no per il lavoro che facciamo, hanno una grande stima di noi». A volte non capi­scono perché si adoperino tanto per aiu­tare persone che non conoscono, e gra­tuitamente. Non comprendono, ma sti­mano queste cinque donne col velo che 24 ore al giorno, per 7 giorni alla settima­na curano instancabilmente gli ultimi della società. Il pomeriggio sta finendo e il sole cala die­tro la «culla della cristianità» che le vicen­de dei secoli hanno reso irripetibile nel suo paesaggio. Ogni bambino ha una sto­ria che andrebbe raccontata. Una storia che nella maggior parte dei casi è segnata da sofferenza e violenza. E nonostante tut­to, è una parola di speranza che accoglie chiunque entri in casa. È la frase del sal­mo 68, inciso su una targhetta che ricor­da l’inaugurazione di questo orfanotrofio della carità. Mentre ci avviciniamo alla macchina, è la suora a ricordarcela: «An­che ai derelitti Dio fa abitare una casa».
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