martedì 2 aprile 2024
Verso le elezioni europee. I partiti populisti cavalcano l’idea secondo cui è la popolazione autoctona di un territorio ad avere diritti prima e in misura maggiore di chi è arrivato dopo
Sostenitori del Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen, al lancio della campagna per le Europee

Sostenitori del Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen, al lancio della campagna per le Europee - Ansa

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È possibile immaginare un’Europa antieuropea? A poco più di due mesi dal voto destinato a rinnovare l’Europarlamento, è questa la domanda che circola nei palazzi che contano. Se l’integrazione politica, dopo quella economica, ha camminato nell’ultimo decennio al passo del gambero, facendo segnare una pericolosa involuzione verso la ripresa del concetto di Stato nazione, fino a che punto potrà spingersi la regressione in atto?

Un sondaggio dell’European Council on Foreign Relations uscito a gennaio ha ipotizzato una forte avanzata della destra di governo, e insieme della destra estrema, in diversi Paesi Ue: secondo questa rilevazione, in almeno nove Stati membri, i partiti populisti “antieuropei” sarebbero in testa, mentre in altri nove sarebbero al secondo o terzo posto. Gli effetti sulla composizione della nuova assemblea di Strasburgo e soprattutto sul nuovo assetto della Commissione andranno ovviamente verificati a tempo debito, ma la sensazione condivisa dagli osservatori è che il vento anti-sistema stia soffiando e soffierà ancora in modo impetuoso sul Vecchio continente.

Il processo in corso è speculare: si sta restringendo il cuore europeista del Parlamento europeo, e non da oggi, a tutto vantaggio di chi protesta (e marcia, come i trattori) contro le istituzioni continentali. Sono le forze populiste, da ormai un decennio, ad aver capito (e alimentato) questo malessere, che vogliono ora dimostrare di saper cavalcare al meglio da qui a giugno. Prima l’offerta non c’era, adesso ha i volti di leader conosciuti, da Giorgia Meloni a Marine Le Pen, da Matteo Salvini a Viktor Orbán, da Geert Wilders a Santiago Abascal.

«In realtà, per le forze della destra radicale la scelta del populismo è strumentale, serve più che altro per presentarsi come soggetti in grado di essere ammessi e poi poter partecipare al gioco democratico. Il populismo è la spezia che si mette sul piatto, ma lo zoccolo duro di tutte queste forze è il nativismo, una teoria secondo cui è la popolazione autoctona di un territorio ad avere diritti prima e in misura maggiore di chi è arrivato successivamente», fa notare Mattia Zulianello, docente di Politica comparata all’Università di Trieste, studioso dei populismi nati a destra. La comparsa del partito fiammingo negli anni Settanta, quindi la creazione del Front National in Francia, l’ascesa di Joerg Haider in Austria a fine anni Novanta (pesantemente stigmatizzata da Bruxelles allora) sono stati i fenomeni anticipatori dell’attuale ondata populista che oggi sa abilmente mescolare le chiusure a rischio xenofobia sui migranti di Vox in Spagna con le rivendicazioni sindacali deiì jilet jaunes in Francia.

«Ora questa domanda di rappresentanza c’è ovunque ed è stata normalizzata, a partire da temi come l’immigrazione e il lavoro – continua Zulianello -. Anche il rapporto di questi soggetti politici con lo Stato è un caso di studio: si assiste di solito a politiche interventiste a favore dei piccoli produttori dimenticati e a uno smarcamento dalle politiche centraliste verso le grandi imprese, a patto che questo non finisca con il colpire categorie sociali legate agli stessi nativi». Nei diversi Paesi, questa ondata assume i connotati della reazione al politicamente corretto, della difesa della tradizione, dello stop alla globalizzazione con la rivincita dei “vinti” ai danni dei presunti “vincitori”. Chi si ostina a guardare tutto questo dall’alto verso il basso è destinato a perdere consenso.

«Nella costruzione della propaganda, soprattutto da parte della destra di governo, viene sempre enfatizzata la contrapposizione tra il popolo genuino e puro e l’élite corrotta e malvagia – spiega Zulianello – fino ad arrivare, come accade in America con Donald Trump, a indicare il nemico nel potere che sta altrove», quello che l’ex presidente repubblicano chiama il Deep State, lo Stato profondo (o nascosto?). Il bersaglio dei movimenti antisistema invece da noi è proprio l’Europa, nemico silente e invadente per tanti, troppi Stati che vogliono tornare nazione sovrana. Lo schema vincente riuscito a molte forze populiste “ripulite” non funziona ancora per l’estrema destra dura e pura, cui vengono rinfacciate quelle simpatie e quei legami neonazisti e neofascisti risparmiati invece a chi si è fatto presentabile forza di governo. In realtà, questa è solo una delle contraddizioni che pure albergano nel fiorente mercato elettorale dei partiti populisti.

«Il paradosso più importante – osserva il politologo Marco Valbruzzi, che insegna all’Università di Napoli Federico II – è che queste forze unite nell’antieuropeismo, sono divise poi nel loro nazionalismo. Alcuni partiti creano imbarazzo ad altri per le sfumature antisemite che assumono nella loro proposta politica, altri ancora perché a Bruxelles tendono ad avere, per ragioni tattiche o di visibilità, comportamenti opposti a quelli che tengono in patria». La competizione tra Meloni e Salvini rientra perfettamente in questa dinamica, come ha ricordato la stessa presidente del Consiglio qualche giorno fa.

«Sarà molto importante, ai fini dell’assetto della prossima Commissione, capire chi arriverà terzo: se dovesse essere l’Ecr, il partito dei Conservatori e riformisti europei a guida Meloni, sarebbe il segnale di un forte rafforzamento per la premier, che potrebbe sostenere la nuova presidente di Commissione, come fecero i 5 Stelle con Von der Leyen, pur senza entrare nella coalizione di governo», sostiene Valbruzzi. Se dovesse invece prevalere il gruppo Id, Identità e democrazia caro a Salvini, lo spostamento a destra sarebbe ancora più netto, con effetti che già si intravedono sulla strategia del possibile, principale partito di maggioranza, il Ppe.

«Risulta molto probabile che di fronte all’ascesa di questi gruppi, il Partito popolare europeo finisca con lo spostarsi verso posizioni meno moderate e più estreme», spiega Zulianello. Sta già accadendo sull’agenda migranti, dove il modello indicato da Manfred Weber e soci è simile a quello britannico dei trasferimenti forzosi dei profughi irregolari verso il Ruanda, accadrà a breve anche sui temi ambientali. Non sfugge agli osservatori che è in atto, a tal proposito, una metamorfosi, che più in generale accomuna popolari e socialisti.

«Il sentimento condiviso in questi anni è stato quello dello scampato pericolo». Il Ppe e il “vecchio” Pse, che oggi si chiama S&D (Socialisti e democratici) continueranno a perdere seggi, secondo le indagini demoscopiche. Ciò detto, dovrebbero restare le forze centrali del sistema, pur ridimensionate (soprattutto la seconda). Il clima che si respira, e che ha portato all’elezione di Ursula von der Leyen cinque anni fa, oggi è se possibile peggiorato, tra stanchezze, diffidenze reciproche, carenza di leadership e classe dirigente. Mancano certamente i De Gasperi e gli Adenauer, ma ancora di più i Delors e i Sassoli che recentemente avevano provato a gettare il cuore oltre l’ostacolo di divisioni e pregiudizi. La disaffezione non è verso l’idea di Europa, è semmai verso il suo funzionamento.

«Da tempo si percepisce nell’opinione pubblica del Vecchio continente insoddisfazione crescente per l’incapacità di prendere decisioni, per l’inadeguatezza nel considerare i problemi di questo tempo, per i tempi lunghi di risposta a fenomeni epocali». Il sistema ha generato le forze antisistema, non c’è dubbio, ma non è detto che questi basti per generare un’Europa antieuropea.

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