sabato 27 gennaio 2024
San Severino Marche, pietra d'inciampo davanti alla casa di una delle vittime della Shoah. Un ignoto prete di campagna e i partigiani sottrassero all'arresto la moglie e i 2 figli dell'ebreo Bivash
La pietra d'inciampo intitolata all'ebreo di San Severino Marche

La pietra d'inciampo intitolata all'ebreo di San Severino Marche - Anpi

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Tra le oltre 70mila pietre d’inciampo sparse in duemila città d’Europa per fare memoria delle vittime dei campi di sterminio nazisti, ora ce n’è una anche in un piccolo paese dell’entroterra Maceratese, San Severino Marche. È stata posata venerdì mattina in presenza della sindaca Rosa Piermattei e di altre autorità locali, per ricordare David Bivash, arrestato qui il 30 novembre del 1943 e deportato ad Auschwitz, dove fu assassinato pochi mesi dopo.
Bivish era un ebreo apolide nato a Salonicco, in Grecia, e proveniente da Napoli dove, prima di scappare da un rastrellamento delle “Ss”, faceva il commerciante all’ingrosso di calze. Arrivò nella cittadina sulle rive del Potenza, tra Macerata e Camerino, nel settembre del 1940 in conseguenza delle leggi fasciste “a difesa della razza italiana”, come “internato a piede libero” (una specie di soggiorno obbligato) con la moglie Ida Saltiel e i figli Ester e Alberto. I suoi tre familiari però si salvarono dalle camere a gas grazie a un ignoto parroco della frazione rurale di Stigliano che li ospitò nella canonica per poi affidarli a una famiglia di contadini del luogo che li nascose durante tutto l’inverno proteggendoli dalle scorribande dei nazisti. Sopravvissero anche grazie all’aiuto dei partigiani della Brigata Mario che operavano sulle montagne del San Vicino, la stessa zona in cui era presente, per coordinare le azioni militari e portare cibo, denaro e armi ai combattenti e ai civili chi li sostenevano, Enrico Mattei, il comandante dei “ribelli per amore”, come erano chiamati i partigiani cattolici.

Il pretesto usato dai repubblichini per far scattare le manette ai polsi di David Bivash, consegnato poi ai tedeschi, sarebbe stato un furto di grano avvenuto in città, del quale fu ingiustamente accusato. Ma nello stesso giorno ci furono anche altri arresti di ebrei, a poca distanza dalla sua casa. La targa dorata in suo nome (l'unica finora in tutte le Marche se si escludono quelle nel ghetto di Ancona) è stata affissa sul marciapiede davanti all’abitazione dove alloggiava la famiglia, in via Ponte Vecchio, nel quartiere di Fontenuova, una casa che allora apparteneva ai fornai del borgo.

Dalle accurate ricerche svolte dalla studiosa Simona Gregori (ora pubblicate nel quaderno intitolato Ricordo di David Bivash edito dall’Anpi) che ha consultato e approfondito le carte del Fondo della questura di Macerata, risulta che questa vittima dell’Olocausto sarebbe stato un rappresentante della Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), organizzazione internazionale con il compito di sostenere materialmente esuli, sfollati e profughi ebrei, e tale ruolo sarebbe stato dunque decisivo per il suo arresto e la deportazione: bisognava spezzare quella rete di solidarietà a favore degli israeliti. A San Severino Marche, città insignita della medaglia d’oro al valor civile per la Resistenza (è stata una delle poche in Italia a non essere liberata dagli alleati ma dai partigiani) erano rifugiati in quel periodo anche altri nuclei familiari di ebrei fuggiti dalle persecuzioni: oltre a quello del romano Mosé Di Segni, il medico che curava i partigiani, anche le famiglie di Joseph Noah (deportato a Bergen Belsen da cui fece fortunatamente ritorno), del milanese Arturo Lombroso e del polacco Pinkas Schimier.

«Per supportare gli ebrei del territorio marchigiano intervenne la sede genovese della Delasem – scrive Gregori nella ricerca –, la cui rete di aiuti era organizzata dalla Curia vescovile che aveva creato collegamenti tra Genova, le Marche e l’Abruzzo attraverso don Giovanni De Micheli, il quale oltre a recarsi a Penne, Teramo, Chieti, Ascoli Piceno e Macerata, fu incaricato di prendere contatti con la curia di San Severino e col vescovo Ferdinando Longinotti». Parrocchie e conventi si mobilitarono coinvolgendo le famiglie disposte a ospitare e aiutare in qualche modo chi fuggiva dalle violenze dei nazi-fascisti.
«In questo momento storico – ha commentato durante la cerimonia Donella Bellabarba, presidente della locale sezione dell’Anpi –, il mondo vive una “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, come ha denunciato papa Francesco: le sempre più crescenti disuguaglianze economiche e sociali, la crisi climatica, i risorgenti nazionalismi, il razzismo, l’antisemitismo, l’omofobia, l’odio etnico e religioso, sono le tremende realtà del presente. Dato il presente che viviamo, questa pietra di inciampo dunque è ancora più potente e ancora più un potente messaggio simbolico».

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