venerdì 29 marzo 2024
Lasciata alle spalle una sanguinosa carriera criminale, gli inquirenti sperano che l'ex boss dei Casalesi, Francesco Schiavone riferisca anche dell'inquinamento della Terra dei fuochi
L'arresto di Francesco Schiavone "Sandokan" nel 1998

L'arresto di Francesco Schiavone "Sandokan" nel 1998 - Ansa

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In Campania, per decenni, il solo evocare a mezza voce l’appellativo del capo casalese Sandokan metteva paura e induceva i presenti a cambiare argomento. Già, perché Francesco Schiavone la sua fama di boss spietato se l’è costruita con le mani proprie, in una carriera criminale iniziata da giovanissimo, come guardaspalle del boss Umberto Ammaturo (il primo arresto lo ebbe diciottenne per porto abusivo d’arma da fuoco). Poi, un delitto alla volta, negli anni Ottanta e Novanta, aveva edificato (insieme ad altri lupi come Francesco Bidognetti, Michele Zagaria, Antonio Iovine...) quel gruppo di camorra passato alle cronache giudiziarie come Clan del Casalesi. Un grumo di pistole e affari, con le radici a Casal di Principe ma capace di imperversare nell’area tra Aversa e il litorale domizio, a suon di cruente faide, estorsioni e omicidi di persone innocenti, in una sanguinaria epopea poi resa letteraria e cinematografica nella saga di Gomorra.

Un revolver in una mano e la penna nell’altra, Schiavone è stato per anni - al tempo stesso - killer e affarista, capace di investire milioni e di far uccidere chi era d’ostacolo ai suoi profitti. Chi ha indagato su di lui, lo ritiene depositario - insieme a Bidognetti - di quasi mezzo secolo di segreti di camorra. Finora non si era pentito, nonostante decenni di carcere duro e nonostante la collaborazione del cugino Carmine Schiavone, altro pezzo da novanta. Se ora «davvero si decidesse a vuotare il sacco», osserva un vecchio investigatore, le sue dichiarazioni aiuterebbero gli inquirenti a fare luce su misteri irrisolti, come l’uccisione in Brasile nel 1988 del fondatore del clan Antonio Bardellino, e gli intrecci tra camorra e politica, considerati i molteplici affari miliardari (appalti, droga, traffico di rifiuti tossici) in cui i casalesi hanno avuto le mani in pasta per anni. I pm della Dda di Napoli, coordinati da Nicola Gratteri - in sintonia con quelli della Procura nazionale, guidati dal campano Giovanni Melillo - cercheranno di gestire al meglio la collaborazione, anche nella speranza di far rivelare a Schiavone dove si trovano i “forzieri” del clan: montagne di valuta forse messe al sicuro nei cassetti di società fantasma o in paradisi off shore.

Uno che l’apogeo casalese l’ha vissuto sulla pelle è Renato Natale, sindaco di Casal di Principe nel 1994 quando fu ucciso don Peppe Diana, e primo cittadino di nuovo oggi: «Dalla sua collaborazione - auspica - ci aspettiamo la verità sugli omicidi irrisolti, sui rifiuti interrati e sui legami con la politica locale e soprattutto nazionale». C’è però pure chi sostiene che altri pentiti (come lo stesso Iovine) abbiano solo aggiunto particolari a vicende note. E chi ipotizza che la mossa di Schiavone possa servire da messaggio indiretto a qualcuno che voglia raccoglierne l’eredità, per mettere una pietra tombale sulle aspirazioni di altri successori.

«Se la collaborazione sarà rispettosa della verità, alcuni pezzi di storia fin qui conosciuti cambieranno e saranno riscritti in base a quanto veramente accaduto, compresa l’identità delle sponde politiche e imprenditoriali del clan», ragionano i componenti della commissione Legalità dell’Ordine dei giornalisti della Campani, chiedendo anzitutto «che siano resi noti i patti che hanno condannato la periferia di Caserta e Napoli all’identificazione con la Terra dei fuochi a causa di sversamenti abusivi di rifiuti speciali».

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