sabato 16 marzo 2024
Il racconto di un giornalista che ha perso il cugino Atiqullah: il 26 febbraio era sulla spiaggia calabrese accanto ai figli, alle madri e alle sorelle di chi non ce l’ha fatta: «Basta morti in mare»
Croci e scarpe sulla spiaggia di Steccato di Cutro

Croci e scarpe sulla spiaggia di Steccato di Cutro - Ansa

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Ancora soccorsi, partenze, naufragi. E, ancora, il balletto dei rimpalli di responsabilità e dell'indifferenza. Prosegue il dramma dei viaggi nel Mediterraneo. Due tragedie, dopo poche ore da quello raccontato dai superstiti della Ocean Viking, sono avvenuti nel Mar Egeo e di fronte alle coste della Tunisia. Sono almeno 21, tra i quali 5 bambini, i migranti che hanno perso la vita a causa di un gommone che si è ribaltato al largo delle coste della Turchia. A soccorrere continua la nave Ocean Viking: giovedì sera ha salvato 135 persone, tra cui una donna incinta e 8 bambini, da una barca a due piani in zona Sar maltese. Al momento l’imbarcazione di Sos Mediterranee sta assistendo 359 naufraghi sulla rotta per Ancona, dove è stato assegnato il porto sicuro. «Una navigazione così lunga – dicono dall’Ong - non dovrebbe mai essere imposta alle persone soccorse in mare». E sulla distanza del porto assegnato dalle autorità italiane ieri è intervenuta anche l’agenzia Onu: «Il porto sicuro deve essere anche vicino». Intanto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi annuncia la possibile correzione di rotta su una delle misure più controverse in materia di protezione umanitaria, prevista del dl Cutro: «Stiamo ragionando sulla riedizione del decreto», che prevede una cauzione di 5mila euro per i migranti che chiedono l’asilo, «prevedendo una gradazione dell’importo, valutando caso per caso».


Ha un malore, urla e sviene. Il medico Orlando accorre, dobbiamo fare una catena umana intorno per difendere la sua privacy dalle telecamere che si girano verso di lei. Ci troviamo sulla spiaggia di Cutro prima dell’alba del 26 febbraio, proprio a un anno dalla terribile strage dove a pochi metri hanno perso la vita in mare 94 persone di cui 35 bambini. Dopo esserci messi in cerchio a fare memoria di tanti nostri cari, con pregherie musulmane e cristiane, con pelouche di bambini accanto ai fiori, con in mano una candela, la signora Fatima che viene dalla Germania insieme al figlio e a due pescatori gettano in mare una corona di fiori, ma lei non regge.

Ha perso in quel terribile naufragio, mentre stavano arrivando, la madre e tutta la famiglia del marito. Come lei sono arrivati tanti altri familiari di vittime o di dispersi, e alcuni sopravvissuti da tanti Paesi occidentali e da altre città d’Italia. Atiqullah, disperso in quella strage, aveva un sogno. Un sogno semplice, che per un ragazzo occidentale è normale, ma per noi afghani no: essere libero, potere vivere in un posto al sicuro, potere studiare e lavorare, ascoltare musica, scegliere liberamente amici e amiche. Come lui tanti altri, giovani, bambini, donne, adulti, famiglie intere che non sono riusciti per poco a realizzare il loro progetto di vita. Alcuni di loro avevano avvisato i loro parenti in Europa cinque ore prima, partendo con il barcone Summer Love dalla Turchia, come il fratello di Zahra. Si chiamava Sajad Barati, aveva 23 anni, era partito dall’Iran lasciando i genitori anziani e due sorelle. La famiglia proveniva dall’Afghanistan e lui era nato in Iran, ma senza documenti, non aveva la possibilità di studiare, non aveva alcun diritto, nemmeno di comprare il pane, perché senza carta di credito, che non era concessa ai profughi, doveva andare ogni giorno dai vicini pregandoli di comprare il pane per la sua famiglia. Era felice al momento di partire, aveva chiamato il marito della sorella che vive con lei a Espo, a pochi chilometri da Helsinki in Finlandia. Poi non avrebbe più potuto comunicare perché senza internet. Quando la sorella ha sentito la notizia, lei e il marito Hassan si sono subito precipitati in Calabria, a Crotone. Io ero all’ufficio della Polizia scientifica mentre aiutavo per i riconoscimenti, o direttamente o attraverso videochiamata, quando li ho visti arrivare. Era proprio un anno fa. Ci hanno mostrato la foto del fratello, con due agenti vicino a me abbiamo scorso nel computer tutte le immagini, le persone morte e quelle salvate. Abbiamo detto che non c’era. Ma lei continuava a piangere e chiedere di mostrale direttamente le foto. Non si rassegnava e si buttava per terra scongiurandoci di vederle. Quindi gliele abbiamo fatto vedere: foto terribili con bambini, donne, adulti con gli occhi spalancati e la bocca aperta, alcuni con ferite prodotte dai rottami del barcone, altri col corpo gonfio, tutto blu.

Immagini tremende che non mi hanno lasciato dormire a lungo e ancora adesso sono un incubo per me. Alcuni giorni dopo è stato ritrovato il corpo di suo fratello che ora è sepolto a Espo. A febbraio la sorella, accompagnata dal marito, è venuta a celebrare con noi questo tragico anniversario e a dire quanto ancora soffre tutta la famiglia. Lei ancora è sostenuta in un percorso psicologico in Finlandia ma altri familiari non hanno questi sostegni. I genitori di lei e anche altri parenti sognano di andare sulla tomba dei loro cari. Non possono avere il visto, quindi sono logorati dalla sofferenza di non potere piangere su quelle tombe. Eppure il governo un anno fa aveva promesso il riavvicinamento dei familiari. Non è facile per noi familiari tornare in questo luogo di immenso dolore, ma nonostante tutto noi siamo arrivati, una cinquantina di rappresentanti delle famiglie e i sopravvissuti. Lailuma Nudrat viene insieme alla figlia dagli Stati Uniti, ha perso la mamma e una sorella, continua a chiedere: come è possibile che nessuno li abbia soccorsi quando erano così vicini? Non ha quasi più la forza di parlare, ma con un filo di voce chiede che non succeda mai più una cosa del genere. Con i volontari di “Memoria Mediterranea” andiamo al cimitero di Cutro, perché lì ci sono ancora sei corpi non identificati. Ho ancora dentro la speranza che uno di quelli sia di mio cugino, andiamo lì per omaggiarli e pregare, perché loro ancora non hanno un nome, dei familiari. È passato un anno ma ancora non ho il coraggio di comunicare a mia zia che per ora non si sa niente. I miei parenti continuano a subissarmi di richieste, cosa che aumenta il mio dolore. Ho dovuto intimare a mia cugina di non tormentarmi più altrimenti devo bloccare la comunicazione.

Torniamo a Crotone, al Museo Pitagora. Qui siamo subito circondati da otto ragazzi sopravvissuti che vengono da Amburgo. Vogliono comunicare l’inferno che hanno vissuto al di là di ogni immaginazione umana. Mi si avvicina un agente della Polizia scientifica, mi abbraccia e mi dice in un orecchio: «Alidad, abbiamo guardato il tuo test del Dna, che però non corrisponde a nessuna delle salme senza nome, sarà ancora nel mare». Cerco di trattenere le lacrime, in quel momento vedo davanti a me un ragazzo di quella famiglia numerosa di 21 persone, tutte sul barcone, di cui solo cinque sono i sopravvissuti e 16 morti. Gli otto ragazzi di prima incominciano a raccontare le loro storie. Comincia Mohammad, prima racconta da dove viene: afghano, 25 anni, da poco laureato in economia, non aveva ancora ritirato la pergamena di laurea quando sono arrivati i talebani. Il padre viene arrestato perché aveva lavorato per l’esercito afghano. Lui ha due scelte: arrolarsi nell’esercito dei talebani o fare la fine del padre. Scappa in Iran e successivamente in Turchia, da dove si imbarca con la speranza di arrivare in Italia. Ricorda quella terribile notte: la nave che scoppia e affonda. Lui quando risale a galla, il buio, le onde, le urla, i corpi dei bambini che galleggiano. Si aggrappa a un relitto del barcone insieme ad altri sei, ma ogni volta che arriva un’onda forte, ne perde qualcuno finche rimane solo. Arrivato sulla spiaggia si butta a terra, rimane in lui il ricordo terribile di avere parlato con qualcuno che poco dopo non parlava e non respirava più.

Tra i sopravvissuti c’è anche Mojtaba, iraniano. Aveva una vita normale, una bella famiglia con moglie e figli, ma quando dopo l’assassinio di Mahsa Amini. scende in piazza a manifestare contro il regime, dal momento che è sospettato dell’uccisione di un poliziotto, fugge immediatamente. Arriva in Turchia, pagando un trafficante può salire su quell’imbarcazione. Si sente in colpa per non essere riuscito a salvare tanti bambini con cui nella stiva del barcone aveva giocato e fatto amicizia. Tante sono le storie che ho sentito. Ancora questa: due coniugi anziani originari dell’Afghanistan che vivono da 9 anni in Germania. La loro figlia e il genero insieme ai bambini si erano imbarcati per raggiungerli finalmente e abbracciarli dopo otto anni. Abdur Rahman con le lacrime agli occhi dice che se Dio vuole si incontreranno in Paradiso.

Tante famiglie scappavano dall’Afghanistan dove c’è una situazione disastrosa, senza libertà di espressione, di stampa, di potere lavorare e studiare per le donne. Anche economicamente la popolazione è allo sfascio. Siamo arrivati con le ferite ancora aperte, ad un anno dalla strage, per chiedere giustizia, verità sui fatti e sulle responsabilità del mancato soccorso. Le promesse del governo del ricongiungimento dei familiari attraverso canali umanitari non sono state ancora attuate. Abbiamo camminato, urlato, denunciato giorno e notte sotto la pioggia, insieme a volontari e associazioni che ci sostengono, chiedendo: Basta morti nel mare, una strage del genere non succeda più.

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