sabato 17 febbraio 2024
Nella tragedia nel cantiere toscano le persone coinvolte, a parte una, sono tutte migranti. Se si parla di reati c'è enfasi a sottolineare la provenienza, in questi casi no. Servono nuove politiche
Un'immagine del cantiere Esselunga a Firenze dopo il tragico crollo

Un'immagine del cantiere Esselunga a Firenze dopo il tragico crollo - Fotogramma

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C’è un dato fra gli altri, nel gravissimo incidente sul lavoro di Firenze, dove sono morti in quattro, che merita una riflessione puntuale: la nazionalità delle vittime e dei feriti. Oltre a un italiano, tutti stranieri, nordafricani e rumeni.

Di solito si vede molta enfasi, nella comunicazione mediatica e governativa, sulla nazionalità degli autori di reati, quando sono immigrati, mentre subentra una strana afasia quando immigrate sono le vittime, in questo caso del lavoro.

La tragedia di Firenze purtroppo non è isolata. Nel 2023 su 1.041 morti sul lavoro 204 erano immigrati stranieri, il 19,6% del totale. L’incidenza è stata di 65,3 morti ogni milione di occupati, contro 31,1 per gli italiani. Più del doppio dunque, e mancano informazioni su quante vittime di cittadinanza italiana fossero di origine straniera.

Il fatto è che i lavoratori immigrati si concentrano proprio nei settori nei quali il rischio d’incidenti è più elevato: le costruzioni (150 vittime nel 2023), trasporti e magazzinaggio (109), attività manifatturiere (101). In Italia sono praticamente assenti dal lavoro pubblico e raramente accedono a lavori da colletti bianchi, meno esposti a rischi infortunistici.

In sostanza, a loro toccano le occupazioni contraddistinte dalle 5 P: pesanti, precarie, pericolose, poco pagate, penalizzate socialmente (ossia considerate di serie B o C da gran parte dell’opinione pubblica).

Se 2,4 milioni d’immigrati lavorano regolarmente in Italia, e parecchi altri ne servirebbero stando alle richieste del mondo imprenditoriale, è perché la nostra economia ha ancora largamente bisogno di questo tipo di lavori, mentre gli italiani in cerca di occupazione guardano altrove: ormai circa quattro giovani su cinque ottengono un diploma di scuola media superiore, vivono in famiglia, e a lavorare in subappalto in un cantiere edile difficilmente qualcuno riuscirà a trascinarli.

Oltre alla pericolosità strutturale, ma non irrimediabile, di certi settori e occupazioni, pesano appunto i subappalti e le politiche aziendali di esternalizzazione (o come si dice di “terzizzazione”) delle attività più rischiose, come la movimentazione delle merci.

Il rischio per gli immigrati cresce anche perché la loro debolezza legale ed economica li conduce ad accettare condizioni di lavoro più ingrate.

Si può rilevare da qualche tempo un fatto nuovo. Si assiste a un’apertura maggiore verso i nuovi ingressi di lavoratori immigrati nelle politiche governative, sotto la spinta delle istanze imprenditoriali. Cominciata sotto Draghi, la tendenza è stata accelerata dal governo Meloni, che ha previsto 452.000 nuovi ingressi in tre anni, allargando di molto la lista dei settori e delle occupazioni accessibili. Quasi tutte ad alto rischio infortunistico.

Cercando di dare sostanza al cordoglio e magari allo sdegno che oggi campeggiano nelle dichiarazioni, sarebbe necessario domandarsi in che condizioni verranno impiegati i nuovi arrivati, come verranno istruiti dal punto di vista anti-infortunistico, quale supervisione verrà esercitata sul rispetto delle norme di sicurezza.

Ma non solo: formazione linguistica, decenti condizioni abitative, possibilità di un rapido ricongiungimento familiare, sono tutte condizioni che aiutano a vivere meglio e riducono il rischio d’infortuni sul lavoro. Dobbiamo sempre ricordare anche noi, come gli svizzeri ammoniti da Max Frisch oltre cinquant’anni fa, che insieme alle braccia arrivano le persone, con bisogni, aspirazioni e diritti.



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