Una sala della mostra a Palazzo Pitti “Ai piedi degli dèi” - .
La musica nella sala centrale è quella del “Gladiatore”, le immagini anche, che si mischiano ai fotogrammi di altri kolossal del cinema americano, ma qui, a Palazzo Pitti, l’inferno che apre il film di Ridley Scott è ormai placato, anzi il ricordo della carneficina compiuta dall’esercito di Marco Aurelio sul suolo germanico si stempera in un contesto del tutto insolito, la mostra Ai piedi degli dèi che indaga (fino al 19 aprile) l’influenza delle calzature antiche sull’immaginario del Novecento. Concepita da Lorenza Camin, Caterina Chiarelli e Fabrizio Paolucci, la mostra ha in effetti un cuore hollywoodiano, che compone in sé l’arte antica, la moda e il cinema. Il direttore degli Uffizi, Eike D. Schmidt, responsabile anche delle iniziative di Palazzo Pitti, nella premessa al catalogo edito da Sillabe avanza un neologismo: calceologia, ovvero lo studio archeologico della scarpa antica, non più primitivo mezzo per proteggere i piedi dalle insidie del suolo o degli agenti atmosferici, ovvero per rendere più spedito ed efficace il cammino dell’uomo (nelle guerre avere un tipo di calzatura adeguata poteva essere questione di vita o di morte, vedi proprio la scena iniziale del “Gladiatore” che tutti ricordano assieme alla battuta «al mio segnale scatenate l’inferno»: per il resto, film dimenticabile); dunque la calzatura non più semplice corredo del vestiario e protezione del piede, ma poi anche «autentica protagonista della storia della cultura e della civilizzazione, divenendo espressione diretta dei rituali sociali, del gusto e persino del credo religioso di coloro che le hanno create».
Quando sento pronunciare espressioni come “mass media” inserendo una i al posto della e (“midia”) mi domando sempre perché il latino debba soccombere, anche quando non è necessario, alla nuova lingua “imperiale”, l’inglese. E mi riferisco al professor Schmidt che scrive: « calceologia (dalla parola inglese calceology) ». Mi chiedo, cioè, se questa derivazione sia corretta e necessaria, tanto più – come ricordano i curatori della mostra – che il primo a condurre uno studio sistematico sulla calzatura classica pare sia stato quel Benoist Baudouin, figlio di un calzolaio parigino e poi rettore dell’Ospedale maggiore di Troyes, che lasciò un testo uscito postumo ad Amsterdam nel 1667 col titolo De Calceo Antiquo «che può essere considerato l’atto di nascita di questa disciplina». Ma si sa come vanno queste cose: direttori stranieri, lingua imperiale, etimologie condizionate.
«Piedi incrociali con krepídes», II sec. a.C. - .
D’altra parte, il latino – ancora celebrato sotto le cupole parigine – ha ceduto il proprio gene a calceology alla fine del Novecento, con gli studi archeologici condotti da Olaf Goubitz, che usò quell’espressione già nel 1987. Calceus/calcei rimanda a “tallone” e indicava una calzatura romana in cuoio alta e chiusa coi laccetti, identica tanto per gli uomini quanto per le donne, che veniva usata di giorno per svolgere le proprie attività fuori di casa. Ed era un corredo di vestiario che anche i senatori romani portavano abitualmente mentre indossavano la toga.
Davvero interessante è la latente significazione che Baudouin dava alla scarpa come parte del vestiario di cui Dio dotò Adamo ed Eva cacciandoli dall’Eden: un accessorio simbolo della caduta. Il figlio del calzolaio parigino però era anche un vero studioso, come ricordano i curatori della mostra, che nel suo trattato analizza con puntiglio la diversa qualità delle materie e le tecniche usate per fare una scarpa. Si tratta, dunque, di un saggio di “cultura materiale” in sé modernissimo, dotato di illustrazioni, che descrive i tipi di scarpe dell’antichità greca e romana: calcei, nullei, soleae, caligae, crepidae, cothurni, perones, campagi ecc.
Però poi torna a riflettere sul senso che aveva nella cultura classica e anche cristiana camminare scalzi oppure calzati. Cristo, si chiede Baudouin, camminava a piedi nudi? Come ebreo, è improbabile avesse l’abitudine di andare sempre scalzo. Quindi ancora riflessioni sui significati simbolici e le allegorie bibliche. La scarpa non fu mai, dall’Antichità in poi, un oggetto neutro. Un banale supporto tecnologico al piede. Fu oggetto anzi di pensieri profondi. Il riferimento alla Bibbia, per esempio, lo si trova anche in altri trattati, come il De Calceis Hebraeorum di Anthony Bynaeus del 1682. Forse perché separa il piede dalla terra su cui cammina, la scarpa ha inevitabilmente una connotazione simbolica ed è fonte di considerazioni morali. Indossare i sandali è segno di dignità: il Battista dice infatti di non essere degno di slacciare i legacci dei sandali di Cristo. E andare scalzo è anche un cammino di penitenza. Infine, si possono ricordare le parole di Gesù che invita a «scuotere la polvere dai calzari» se in una casa non si riceve ospitalità. In mostra, tra le altre cose, sono esposti piedi votivi e lucerne, come quella del I secolo d.C. con piede in bronzo calzato da un sandalo che ne copre i lati e il tallone. Qualche altro esempio tratto dalla mostra.
Nel vaso nuziale greco in ceramica a figure rosse e tocchi di bianco e giallo del IV secolo a.C., si vede Afrodite che punisce Eros. Come? Lo sta per colpire con la suola di una scarpa. Ma in un’anfora greca del V secolo a.C., Eros è inginocchiato e intento ad allacciare i sandali di una fanciulla. In un bronzo del IV-III secolo a.C. si vede un piede chiuso da un infradito, sandalion, con nodo floreale; in un altro vaso di ceramica del III secolo a.C., dipinto di nero (ma in gran parte scrostato) e a forma di sandalo, la suola sottile posta su una zeppa presenta un copritallone con stringhe che si congiungono sul collo del piede; una terracotta del II a.C. raffigura due piedi incrociati che calzano sandali militari, krepides, con un bell’intreccio di stringhe che si chiude ancora nell’infradito; altro piede con scarpa militare in bronzo del I-II secolo d.C., appartenuto probabilmente alla statua di un cavaliere d’alto rango: la scarpa è dotata di sperone e curata nei dettagli, e come vari altri frammenti qui esposti appartiene al genere delle “reliquie” di opere maggiori perdute, che esaltano la qualità “feticistica” della scarpa capace di scatenare pulsioni insospettate. Il piede e la calzatura che lo ricopre per qualcuno nel nostro tempo (ma forse anche in passato) sono causa di un culto smodato, a volte insano. Una pulsione che la moda sostiene affinché la scarpa sia oggetto del desiderio.
Una sala della mostra con la teca nella quale sono esposte le calzature per il film “Il gladiatore” - .
Calzature per la serie televisiva «Cleopatra» (1999) - .
In mostra, un’ampia sezione è riservata alle calzature realizzate per film come Gli ultimi giorni di Pompei del 1959, Quo Vadis? (1951), Ben-Hur (1959), Cleopatra (1963), il Gladiatore (2000) fino ad Alexander (2004). La mostra si chiude con una galleria di scarpe disegnate da grandi stilisti di oggi come Salvatore Ferragamo o Yves Saint Laurent ovvero René Caovilla.
Sandalo femminile di René Caovilla (2000) - .
Trattandosi di ispirazione dall’antico, forse si poteva concludere con una chimera del design calzaturiero: il Sandalo invisibile di Ferragamo, opera del 1947 dove il piede sembra prendere il sopravvento quasi svincolandosi dalla scarpa grazie ai fili di nylon trasparenti che lo legano e alla suola che poggia su un tacco dalle forme sensuali. La scarpa vinse il premio Neiman Marcus e in questa mostra avrebbe, in modo certo surreale, rinverdito la dialettica, anche culturale, fra piede nudo e piede calzato.