lunedì 11 marzo 2024
La curatrice entra nei dettagli del padiglione all'interno del carcere femminile della Giudecca: «Detenute e artisti sono protagonisti alla pari. Un miracolo nato dalla fiducia e dall'amore»
La Corte del Passeggio della Casa di reclusione femminile Venezia-Giudecca

La Corte del Passeggio della Casa di reclusione femminile Venezia-Giudecca - Marco Cremascoli, 2024

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Se qualcuno si fosse chiesto cosa ha che fare con la religione cattolica il Padiglione della Santa Sede alla prossima Biennale di Venezia, che avrà come luogo la Casa circondariale femminile della Giudecca e certamente non conterrà croci e santi, basterebbe ricordare il passo di Matteo “carcerato, siete venuti a visitarmi”. «Non si tratta di una semplice mostra dentro il carcere – spiega Chiara Parisi – ma di una passeggiata insieme alle stesse detenute, un percorso senza barriere nella prigione, all’interno della quale nascono e prendono vita forme espressive diverse a opera degli artisti coinvolti. Niente di monumentale, tutto proporzionato al carattere del luogo». Chiara Parisi, dal 2019 direttrice del Centre Pompidou-Metz, è curatrice insieme a Bruno Racine del Padiglione vaticano, il cui titolo è “Con i miei occhi”.

Come è nata l’idea del progetto?

«È sbocciata dal magistero di Francesco, da ciò che il papa dice e fa. Le sue parole e le sue azioni sono un paradigma per guardare il reale: per tutti, non solo per i credenti. È stato molto naturale, era tutto lì, andava solo visto. Il manifesto della Biennale di quest’anno è “Stranieri ovunque”. Ecco, il carcere ci è parso subito esemplare».

Il carcere è un luogo “straniero” nelle nostre città. Lo si guarda con sospetto, lo evitiamo.

«Ma il carcere non è un luogo chiuso di per sé. Come dice Mariagrazia Bregoli, la direttrice della Casa di reclusione della Giudecca, siamo noi all’esterno i primi che “naturalmente” non andiamo a visitare chi sta in prigione. La prima impressione, entrandoci, potrebbe di essere noi gli stranieri. Ma, lo si vedrà, è l’opposto: non ci si sente più straniero».

I nove artisti coinvolti vanno da Maurizio Cattelan alla coreografa Bintou Dembélé, dal collettivo Claire Fontaine al regista Marco Perego e l’attrice Zoe Saldana fino a una pittrice “pura” come Claire Tabouret.

«Sì, gli artisti provengono tutti da discipline differenti, perché la chiave del progetto è l’incontro. Gli artisti potevano scegliere di portare un progetto autonomo o di lavorare con le detenute. Hanno tutti scelto la seconda possibilità. Questa cosa ha cambiato il progetto in pochissimo tempo. Si sono incontrate una comunità di 80 donne che vivono in carcere e una comunità di artisti. La possibilità di confrontarsi con un contesto tanto difficile quanto stimolante sta dando vita a una esperienza di grande forza e intensità. E ha spinto ognuno a superarsi. Maurizio Cattelan, che è un artista lento, diffidente e malinconico ma ha detto subito di sì alla proposta, realizzerà un murale sul muro esterno della cappella nel segno della grande storia dell’arte italiana. Perego e Zoe Saldana hanno realizzato in pochissimo tempo un film davvero intenso, coinvolgendo nel cast le detenute e un team tecnico di livello hollywoodiano. L’artista brasiliana Sonia Gomes interviene nella cappella con un lavoro più esplicitamente spirituale. Claire Tabouret invece sta lavorando sulle immagini delle detenute quando erano ancora bambine oppure delle loro nipoti, dipingendo una lunga serie di ritratti attraverso le fotografie e i racconti… È un padiglione basato su frammenti di immagini, poesie, parole, memorie. Sarà interessante vedere come questa esperienza cambierà il lavoro a venire di questi artisti: tutti si sono confrontati con dimensioni che non avevano mai esplorato».

Quale è stata la chiave che ha reso possibile tutto questo? Si può immaginare la complessità burocratica.

«Si è manifestata subito una grande forma di fiducia, che ha abbattuto burocrazia e cambiato terminologie. Tutti si sono fidati dell’altro: non ci saranno né schermi né filtri. A fidarsi per prime sono state le stesse detenute, che del Padiglione sono protagoniste al pari degli artisti. Questi, da parte loro, stanno facendo di tutto per superare la loro disciplina e le barriere. Vorrei inoltre aggiungere che questo sarà un padiglione contemporaneo e innovativo non solo nella forma ma anche nel processo produttivo. Non ci sono trasporti, tutto è realizzato in situ. È un nuovo modo di fare un padiglione alla Biennale di Venezia, destinato a lasciare il segno anche nella prassi».

La Chiesa è committente, ma non nel modo in cui siamo abituati a pensarla. Eppure è lecito aspettarsi che questa non sia come una mostra organizzata da una ong che si occupa di giustizia. Insomma, che forma di “sacro” emergerà dal Padiglione?

«Come una grande forma di amore. È un progetto gioioso nato dall’incontro di detenute, direzione, artisti, staff: in sintesi, di esseri umani. È solo l’amore che può dare vita a un progetto del genere. È questa la spiritualità, la sacralità che anima il progetto. C’è una chiarezza di intenti e semplicità di relazioni, giustizia e giustezza delle parole… Se non lo ritiene inopportuno, potremmo dire che è un miracolo».

Come è stato il rapporto con la committenza, il Dicastero per la cultura e l’educazione?

«Costante e arricchente. Il cardinale Tolentino è una grande figura, aperta, con una rara conoscenza dell’arte di oggi e del passato. E il fatto che sia un poeta è fondamentale. Purtroppo non sempre i committenti nel mondo ecclesiale sono all’altezza del compito. Il rapporto tra arte e religione oggi è complicato anche perché ha perso la centralità che aveva nel passato. Nella mia esperienza ho sempre trovato più interessante quando un’opera contemporanea non esplicita una sacralità diretta. Ma lavorare con la Chiesa è stimolante, per questo quando ci hanno chiamato abbiamo risposto con entusiasmo. Dentro questa sfera c’è una potenza di immaginazione e di desiderio unica».

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