giovedì 18 aprile 2024
In molti padiglioni l’elemento visivo non solo è integrato da quello acustico ma addirittura gli altri sensi prendono il sopravvento sulla vista perché più efficaci nell’attivare la memoria
Il padiglione dell'Italia: Massimo Bartolini, “Bodhisattva pensieroso su La bemolle”, 2024

Il padiglione dell'Italia: Massimo Bartolini, “Bodhisattva pensieroso su La bemolle”, 2024 - © Agostino Osio per AltoPiano/La Biennale di Venezia

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Sono 88 quest’anno, le partecipazioni nazionali alla Biennale. Erano 80 nel 2022 – ma 89 nel 2019, quindi si è tornati ai livelli pre-Covid – con nuovi ingressi (sono in laguna per la prima volta Benin – tra l’altro con un padiglione molto ben fatto, sul tema della fragilità – Etiopia, Timor Est e Tanzania), a dimostrazione del prestigio all’apparenza inscalfibile dell’istituzione veneziana. Allo stesso tempo, insieme ai 30 eventi collaterali ufficiali e alla sovrabbondanza parallela di mostre e nuove aperture di sedi espositive, fa sì che questa sorta di olimpiade dell’arte abbia raggiunto dimensioni davvero ipertrofiche. Impossibile restituirne una visione completa. Si potrebbero selezionare alcuni padiglioni riusciti, come ad esempio quello statunitense, allo stesso tempo una summa del politically correct, l’artista Jeffrey Gibson è sia di origine cherokee che queer, e uno dei più festosi degli ultimi anni, un tripudio rutilante e lisergico di colori entro cui si intrecciano messaggi sociali e di critica alla società americana. Oppure provare a individuare percorsi inattesi tra le diverse proposte. E quest’anno, dove la qualità media delle partecipazioni nazionali è piuttosto elevata, si segnala una serie di padiglioni nei quali l’elemento visivo non solo è integrato da quello acustico ma addirittura gli altri sensi prendono il sopravvento sulla vista perché più efficaci nell’attivare la memoria.

Il caso estremo è forse quello della Corea del Sud. Il padiglione appare completamente vuoto, in realtà è stato riempito dall’artista Koo Jeong-a con una serie di profumi ed essenze: sono stati raccolti da Koo con l’obiettivo di realizzare un ritratto olfattivo della penisola, rivolgendosi anche ai coreani del nord e ai non coreani chiedendo quale fosse il ricordo olfattivo più forte della Corea (un po’ come il dottor Montesanto, nelle Storie naturali di Primo Levi, possiede una raccolta di ricordi sotto forma di odori). Nel vicino padiglione del Giappone Yuko Mohri ha collegato a gruppi di frutta degli elettrodi che alimentano luci, fontane, installazioni sonore e, attraverso l’analisi e la rielaborazione digitale dei flussi elettrici, generano un tappeto acustico. Ma lo spazio è anche pervaso dal profumo della frutta. La composizione interna della frutta varia e con essa l’intensità della luce, la sequenza dei suoni ma anche gli odori nel padiglione.

Il padiglione degli Stati Uniti

Il padiglione degli Stati Uniti - La Biennale di Venezia

Nel padiglione tedesco, forse uno dei più belli proposti dalla Germania negli ultimi anni, regna la terra, che incrosta le pareti (guadagnando così il senso del tatto) e resta sospesa come polvere nell’aria. Ersan Mondtag ha creato all’interno del padiglione di Speer un edifico in stile modernista ma in terra cruda portata dall’Anatolia, il luogo di origine del nonno, operaio in Germania in una fabbrica di Eternit e morto per asbestosi. Tutto nella casa, dagli oggetti agli abitanti-performer, è coperto di polvere. Ci si muove negli spazi come in un incubo, nell’impossibilità di decidere se il pulviscolo nell’aria, e di cui sentiamo ancora il gusto e la consistenza dietro ai denti una volta usciti, sia la terra delle origini perdute, la polvere letale delle illusioni della modernità o il destino che attende tutte le cose.

Sull’isola della Certosa, dove sconfina il padiglione tedesco, altri artisti hanno lavorato con l’acustica: Nicole L’Huillier ha sviluppato un apparato di emissione e ricezione che traduce i suoni dell’isola in nuove frequenze. Robert Lippok ha installato numerosi subwoofer nel terreno, facendo del sottosuolo il luogo dove si cela la memoria dell’isola. Jan St. Werner ha collocato un set di altoparlanti nelle rovine del monastero, in dialogo con un altro altoparlante che dalla laguna emette un fascio concentrato di suoni per varie centinaia di metri in direzione dell’isola. La Polonia affida al suono la memoria della guerra. In Repeat after me, un progetto semplice ma molto efficace, il collettivo ucraino Open Group porta una serie di video nei quali i rifugiati civili restituiscono la loro esperienza della guerra e ciò che è rimasto più impresso in loro, riproducendo con la voce il suono di mitra, tank, missili, sirene e invitando quindi gli spettatori a ripeterli, come in un tragico surreale karaoke. Storia, guerra e suono: nel padiglione dell’Egitto Wael Shawky (che a Venezia è presente anche a Palazzo Grimani con I Am Hymns of the New Temples, un progetto su Pompei) porta una sorta di musical che ricostruisce in modo popolare e preciso le vicende che portarono al bombardamento di Alessandria d’Egitto da parte degli inglesi nel 1882, una vicenda in cui gli stranieri e gli invasori sono gli europei.

Il padiglione del Giappone

Il padiglione del Giappone - La Biennale di Venezia

Il suono ha un ruolo strutturale, sorgivo, nel padiglione britannico. In Listening All Night To The Rain l’artista di origini ghanesi John Akomfrah ha costruito un percorso complesso che intreccia soundscape, video e installazioni, con una sequenza che si ispira (anche dal punto di vista “compositivo”) ai Cantos di Ezra Pound. Il materiale sonoro e visivo ritorna nei diversi capitoi, con effetti di allitterazione e ridondanza. I temi della migrazione e dell’ambiente sono affrontati sotto un profilo densamente poetico e attraverso un affiorare di temi portanti. Alcune persone in ambienti aperti disseminati di oggetti sono immerse nell’ascolto: di suoni riprodotti da radio e registratori vintage, e allo stesso tempo dei propri ricordi. La storia e la memoria si sovrappone, anche visivamente, negli schermi con immagini di repertorio, alternate a riprese realizzate dall’artista. Compagno della memoria è il tempo, o meglio tempi differenti: c’è il tempo come fluire, reso dall’acqua scorre e si espande, nella quale sono immersi oggetti, fotografie ma anche orologi. Questi, insieme ai numerosi metronomi, sono il tempo dell’uomo, scandito artificialmente in segmenti ma destinato a sedimentarsi in un tempo che non conosce frammento.

Il padiglione della Gran Bretagna

Il padiglione della Gran Bretagna - La Biennale di Venezia

È, infine, perfettamente in linea con questo scenario internazionale il padiglione italiano “Due qui / To Hear” realizzato da Massimo Bartolini in collaborazione con i compositori Caterina Barbieri, Gavin Bryars e Kali Malone. L’operazione ha suscitato nella critica italiana diverse perplessità, ma se inteso come un padiglione da ascoltare (e sentire, nell’accezione inglese di to feel) e non, come al solito, da vedere, appare riuscito. Nella prima sala Bartolini ha collocato una canna d’organo lunga 25 metri che emette un la bemolle a bassissima frequenza, una sorta di gigantesca vibrazione, la cui natura cosmica, come un om, è ribadita dalla statuetta di un Bodhisattva. La seconda “tesa” è una selva di tubi d’acciaio (ma una diversa illuminazione avrebbe giovato) all’interno della quale sono incastrati, quasi nascosti, due organi composti da alcuni gruppi di canne che riproducono una composizione di Barbieri e Malone “trascritta” su due carillon, e quindi nei fatti virtualmente infinita, anche se ogni 50 minuti si interrompe in 10 minuti di silenzio. Qui il rimando è tanto alla tradizione degli organi battenti veneziani quanto, soprattutto, a John Cage, autore di una composizione per organo la cui durata è prevista in 639 anni. Bartolini porta poi il padiglione all’esterno, nel Giardino delle Vergini, dove da un albero è diffuso un coro per tre voci, campane e vibrafono composto da Bryars. Il testo, del poeta argentino Roberto Juarroz, allude a un essere umano che si percepisce come un albero ed è connesso al mondo attraverso le radici. Se la mostra internazionale rilancia la pittura, c’è una Biennale che invita a esercitare l’arte dell’ascolto, lasciando volatilizzare il dominio del visuale.

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