mercoledì 22 maggio 2024
Il rabbino è guidato dall’equino, a sua volta è ispirato da un angelo, “maestro dei passi delle bestie”. Nasce un sodalizio tipico nella tradizione: anche gli animali erranti possiedono un cherubino
Rembrandt, “L’asina di Balaam”. Parigi, Musée Cognacq-Jay

Rembrandt, “L’asina di Balaam”. Parigi, Musée Cognacq-Jay - WikiCommons

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Anna Sierka è ricercatrice di Filosofia ebraica alla Tel Aviv University, è una delle relatrici alla conferenza internazionale Materiality at the Intersection of Ecology and Religious Studies, che si tiene dal 21 al 23 maggio a Venezia, promossa dal Centro studi di Civiltà e spiritualità comparate della Fondazione Giorgio Cini.

Quale potrebbe essere il legame tra un animale e un bambino? All’interno delle tradizioni esoteriche e cabalistiche è emersa una sorta d’intuizione magica davvero singolare. Ambedue, animale e bambino, sono dotati di una rara attitudine a vedere, sentire e annusare in profondità meglio di qualsiasi essere. Provo a focalizzarmi su un animale o, meglio su due, perché la lingua ebraica distingue tra l’asino noto come ḥamor e l’asina chiamata aton. Il termine hamor è legato alla parola homer, cioè la materia. E l’aggettivo ḥamur indica un’attitudine severa, rigorosa. Nella omelia zoharica sulla Parashat Balak, l’asino di Rabbi Pinchàs Ben Yair è associato alla più bassa delle divine manifestazioni. Lo status dell’animale è definito dalla sua dimensione di essere limitato, di “sentirsi povero”, ma rimane inconsapevole di questa limitazione nei propri modi di esprimersi. Eppure, quell’asino guida il rabbino: l’interazione umano-animale si trasforma così in un sodalizio a prima vista bizzarro, per cui è l’uomo che segue le tracce dell’animale. L’intuizione di questo animale è possibile perché è guidato a sua volta da un angelo, «maestro dei passi delle bestie», poiché nella tradizione anche gli animali erranti possiedono un proprio angelo con cui rimangono in contatto, qui in missione per trovare i compagni di Rabbi Pinchàs.

L’aspetto orale, sonoro, di questa storia è essenziale sia per la comprensione del ruolo dell’animale sia per cantare una lode a Dio. Di conseguenza, dobbiamo chiederci quando il raglio dell’asino maschio (nahiqu da-ḥamara) sia solo una vocalizzazione e quando invece riesca a dire davvero «Eccoli qui, seguitemi, seguite i miei passi». L’istante in cui il raglio perde il suo semplice suono, trasformandosi in un canto di lode, crea una tensione, un abisso testuale in cui il lettore viene trascinato. Subito dopo, un altro abisso si apre davanti a noi: le parole uscite dalla bocca spalancata dell’asina di Balaam, l’uomo inviato a maledire gli israeliti alle porte di Canaan. Prima che accada, vorrei sottolineare che l’animale mistico non è muto, ma la sua voce rimane esposta per la prima volta durante un momento critico della narrazione spirituale, sullo sfondo di un incontro tra esseri ontologicamente separati l’uno dall’altro. In tale contesto, vale la pena notare che il possesso della propria voce appare come un requisito fondamentale, secondo filosofi come Heidegger e Benjamin, per distinguere una bestia e un essere umano: la prima sarebbe privata di una articolata modulazione come la parola (Stummheit), mentre il secondo assumerebbe una propria voce (Stimme). Eppure, oltre all’asino di Rabbi Pinchàs, anche all’asina di Balaam viene accordata la speciale facoltà di percepire un messaggero angelico, che il mistico spagnolo duecentesco Abramo Abulafia individua tuttavia come Satana.

Per comprenderlo, dobbiamo ricordare le parole del celebre saggio Shimon bar Yoḥai, che scrive [Zohar 3:201b]: «Ora è il momento di rivelare. Ascoltate, compagni! La bocca dell’asina [pi ha-aton] fu creata alla vigilia del sabato al crepuscolo; pensereste mai che la bocca rimase aperta da quel momento, o che il Santo Benedetto stipulò un patto? Non [fu] così! C’è un segreto trasmesso ai saggi che non prestano attenzione alla stupidità. La bocca dell’asina: il livello più alto delle asine, il più alto tra le femmine; era questo che si posava su quell’asina e parlava sopra di lei. Quando il Santo Benedetto creò questo livello chiamato ‘bocca d’asina’, lo racchiuse nella cavità del Grande Abisso, sigillandolo. Quando giunse il momento, aprì quella cavità ed esso emerse, posandosi su di lei ed ella parlò». Cosa significa? Seguendo il Pirqei Avot (‘Capitoli dei Padri’), dopo la sua creazione, alla vigilia del primo sabato, la bocca dell’asina fu nascosta in un luogo speciale, nella cavità demoniaca del Grande Abisso, per poi aprirsi come avvenne quando l’animale rimproverò Balaam. Le sue parole sono una delle più toccanti espressioni comprensibili della sofferenza animale, trasformandosi in un appello alla umanità crudele.

Eppure, secondo il trattato talmudico Sanhedrin 105a-b questa sorta di potere magico derivava dalla conoscenza carnale di Balaam col suo animale in notturni atti zoofili (cf. Zohar 1:125a). Inoltre, la bocca dell’asina che parla dell’a è servita per spiegare il più elevato rango demoniaco femminile, identificato con il demone Kamriel. L’uso magico di parti del corpo asinine per suscitare amore è stato raccontato da Abulafia, che nella sua opera Oṣar Eden Ganuz (‘Tesoro nascosto dell’Eden’) fa riferimento agli insegnamenti dei Gentili: «E prendi una costola di un’asina nera, che è morta di morte naturale, e sarà la più bassa di tutte le costole sul lato sinistro, e rimuovi con cura da essa tutta la carne. E pronuncia di fronte a questa costola, prima di scriverci sopra, le parole di questo misterioso giuramento». Curiosamente, nella magia ebraica si raccomandano ricette simili per seminare l’odio. La paura degli animali, la parola degli animali, la magia degli animali non necessariamente implicano la bestialità degli animali. Quello che condividono gli animali-animali e gli animali-umani può essere visto come un luogo abissale, che rimane per noi non meno enigmatico dell’apertura della bocca dell’asina di Balaam.

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